19 febbraio 2022

Il colore nell’arte, terza (e ultima) puntata

Scrivo oggi il terzo (e ultimo) editoriale sul colore nell’arte, spinto un po' dall’onda dei ritorni molto positivi avuti dai lettori ma anche dalla necessità di mettere una sorta di appendice ai due precedenti. Ultimo perché ho invaso un campo non mio e che percorro un po' da amateur-connoisseur e per vostra bontà di lettori. 

L’apoteosi del colore è indiscutibilmente il ‘400 e la prima metà del ‘500 italiani: dimenticate gli Impressionisti, il colore è italiano. Raffaello, Tiziano, Michelangelo, nessuno ha mai raggiunto il livello di colore nella pittura di questi assoluti maestri, tanto che nacque addirittura una corrente pittorica dalla incontenibile mania di utilizzare i colori alla loro “maniera”… il Manierismo appunto. L’Argan scrisse che  Michelangelo “del colore non ebbe il gusto, ma un concetto filosofico trascendente”. Ebbene il colore, come abbiamo già detto, non è un vezzo o una casualità ma è un alfabeto, un linguaggio che con questi maestri assurge addirittura a filosofia, a scuola di pensiero. 

La Cappella Sistina è certamente il più straordinario compendio di tutto questo, e non a caso il restauro avvenuto negli anni ’80 fu un vero e proprio stravolgimento mondiale: l’umanità scoprì che Michelangelo era un inarrivabile maestro del colore più brillante sotto ai secoli di patine oscure che lo avevano brunito, e che avevano fatto pensare che la tenebra pittorica fosse una costante dell’arte e non una evoluzione seicentesca. 

I colori usati da questi grandi maestri, come dicevamo, hanno un senso ben preciso e non sono un vezzo estetico: il rosso è il colore della maestà e del sangue, ed ecco perché lo si usa per vestire nei quadri i martiri, i regnanti e spesso i ricchi committenti. Il rosa è il colore liturgico del “laetare”, cioè il giorno di metà Quaresima in cui si ricorda che Cristo risorge e quindi si festeggia, e dal viola penitente si passa al rosa, che è un misto di rosso e bianco, i colori della passione e della risurrezione: Cristo infatti viene quasi sempre rappresentato in rosa, Dio in rosa e azzurro. L’azzurro è il colore del cielo, della Madonna, ma soprattutto per Michelangelo era il colore di Dio come testimonia Vittoria Colonna, ed era inoltre il colore più costoso e prezioso, perché si realizzava polverizzando i lapislazzuli afgani. Il giallo è il colore della gelosia e del tradimento, tanto che gli ebrei venivano rappresentati con questo colore come l’apostolo Giuda, ed è un colore che indossa quasi sempre anche S. Pietro, forse perché tradì anch’egli Cristo la notte del Getsemani.

E’ tra la fine del ‘400 e la metà del ‘500 che il colore nell’arte raggiunge il suo apice, così come la rappresentazione della natura, delle piante, dei fiori, dei frutti e degli ortaggi. Un complesso universo di raffinatezze incredibili che circonda e spesso soverchia le figure sacre. Poi arriva il Concilio di Trento: la reazione della Chiesa all’uragano luterano (e all’arrivo della sifilide, che falcidia anche le gerarchie ecclesiastiche dedite alla promiscuità sessuale) è un ferreo codice di comportamento che investe perfino l’arte. Spariscono i troni, i committenti ricamati, le ghirlande e i frutti copiosi, i paesaggi e la natura, i cieli azzurrissimi, il colore brillante… arriva la severità, il rigore, la fedeltà assoluta al racconto biblico, la drammatica oscurità: Caravaggio, e poi El Greco, Goya…  Il colore è ancora una volta un linguaggio non scritto.

Un esempio su tutti sono le due Incoronazioni di spine di Tiziano, la prima del 1542 e la seconda del 1570. La prima, realizzata per i domenicani di Milano, è un trionfo di colori quasi assurdi, con le armature dei centurioni turchese, verde brillante, giallo dorato, viola, benchè si tratti di una scena tragica come la fustigazione di Gesù. Quella di trent’anni dopo, post concilio di Trento, è già un Goya, è già El Greco: figure sfocate e buie, colori bruniti e scuri.

Questo “alfabeto dei colori” nasce nel tardo medioevo dai bestiari, dalle allegorie bibliche e dalla riscoperta di parte della cultura classica come le Metamorfosi di Ovidio, e si allarga pian piano perfino alla frutta e agli ortaggi. Il ritrovamento alle fine del’400 della Domus Aurea a Roma fa letteralmente esplodere una mania per ghirlande, festoni, grottesche…che hanno anche loro un significato molto preciso, un altro alfabeto, di cui i maestri assoluti sono Mantegna, Crivelli, Giovanni da Udine: non sono semplici decorazioni floreali, ma linguaggi molto precisi.

Il cetriolo, che sempre campeggia sopra o sotto la Madonna, è segno di fertilità ma anche di lussuria, di verginità e di rinascita, a causa del suo rapidissimo svilupparsi e riprodursi, oltre alla forma fallica. Nella Bibbia Giona vomitato dalla balena, quindi rimandato alla vita dalla morte, si risveglia su una spiaggia su cui Dio fa crescere un pergolato di cetrioli per ombreggiarlo e sfamarlo. Il profeta Isaia lo associa invece alla verginità: “sola è rimasta la figlia di Sion, come una casotta in un campo di cetrioli”... a indicare Gerusalemme assediata, e la sua verginità accerchiata da questi frutti che simboleggiano la sessualità, ma anche la vittoria sul peccato e la fertilità positiva.

La mela, che rappresenta il peccato originale con Adamo, con Gesù nuovo Adamo diventa simbolo della  redenzione, e infatti spesso il bambin Gesù gioca con una mela, straordinaria simbologia del suo potere assoluto. Uva, prugne, ciliegie rappresentano il vino, il color del sangue, e quindi sono la passione di Cristo e il martirio. Il garofano è il simbolo della divinità, mentre noci nocciole e mandorle lo sono della Trinità, perché sono tre in una, avendo il guscio, la buccia e infine il frutto. Il melograno rappresenta l’unità della Chiesa, nella sua enorme varietà di confessioni tutte però racchiuse in una sola buccia, mentre la pesca  rappresenta l’immortalità, ed è infatti messa spesso sopra a Cristo o Gesù bambino, perché il pesco è il fiore della primavera e della rinascita. Non è un caso, oppure è uno straordinario caso del destino, che proprio nel 1492, quando esplode l’uso di frutti e ortaggi nell’arte, si scopra una nuova terra, il cui primo cenno scritto sta all’Archivio di Stato di Milano nella cancelleria sforzesca, e dalla quale arriveranno nuove affascinanti verzure:  le grandi zucche arancioni, i pomodori, le patate e poi le banane, gli ananas…

Abbiamo un patrimonio di immagini e colori sconfinato e veramente incredibile, che non aspetta altro che di essere riscoperto per poter ispirare nuove creazioni e talenti. Dobbiamo però fare lo sforzo di ristudiarlo e divulgarlo in modo nuovo, abbandonando schemi di fruizione del nostro patrimonio artistico che sono ormai superati e asfittici, come la mera nozione o la fantasiosa narrazione. La tecnologia unita allo studio delle vere fonti e dei documenti del passato può essere una via straordinaria di valorizzazione della nostra storia proprio attraverso l’immagine. Ma bisogna abbandonare per un po' la narrazione dei fatti per come ci piace o ci torna comoda per ragioni politiche o peggio di leggerezza, e tornare allo studio rigoroso delle fonti e dei fatti per poi poterli esplodere visualmente attraverso la tecnologia e la rete.

Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano

Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano

(la foto del professor Martelli è di Irina Mattioli)

 

Francesco Martelli


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