Il delirio afghano e la società che non ragiona più
“And then we fucked up the end game”, e poi ci siamo fottuti proprio a fine partita. Così commentò alla stampa americana l’attentato alla Torri Gemelle il deputato texano Charlie Wilson, l’uomo che mise fine all’invasione sovietica dell’Afghanistan negli anni ’80. Wilson, personaggio decisamente fuori dalle righe, fu a capo del piano segreto americano di armamento degli afghani durante i dieci lunghissimi anni della guerra russo-afghana, che dal 1979 al 1989 vide i sovietici impantanati in un inferno dal quale uscirono praticamente distrutti: “solo” 26.000 morti tra i militari sovietici rispetto ai sei milioni tra morti e profughi degli afghani, ma l’invincibilità dell’Armata Rossa crollò ufficialmente sbriciolata dalla assurda tenacia di un popolo di pastori ( e fondamentalisti islamici). Con gli accordi di Ginevra del 1988 l’onnipotente URSS si ritirava dall’Afghanistan umiliata, e un anno dopo cadeva il muro di Berlino assieme all’imperialismo comunista. Leonid Brežnev, leader supremo dell’URSS, alle fine degli anni ’70 aveva deciso di prendersi l’Afghanistan per poi poter avere uno sbocco sul Golfo Persico, centrale nella guerra fredda del petrolio, quello sbocco che anche Stalin aveva tanto desiderato cercando di prendersi l’Iran alle fine degli anni ‘40, ma a cui dovette rinunciare per le minacce americane e inglesi e, pare, perchè invaghitosi della bellissima Ashraf Pahlavi, sorella dello Scià, che convinse il baffuto georgiano a non invadere il proprio paese.
Al netto della incommensurabile tempra degli afghani, fu senza dubbio il fiume di denaro e armamenti che gli Americani, assieme ai Sauditi, fecero piovere sulle loro milizie a portare l’URSS al crollo: esattamente, gli americani, nemici giurati del fondamentalismo islamico, finanziarono e armarono i mujaheddin, i guerrieri fondamentalisti islamici che si opponevano all’ateismo sovietico. E per tutta risposta, gli USA sono divenuti negli anni il nemico giurato dell’Islam estremo, il Grande Satana di khomeiniana memoria, fino agli attentati dell’11 settembre, ispirati da quel Bin Laden che proprio tra i mujaheddin afghani aveva combattuto e si era formato. Ecco perchè Wilson dichiarò che gli americani avevano incasinato tutto proprio alla fine: avevano salvato l’Afghanistan, ma non lo avevano spiegato agli Afghani, perché gli interessava solo far cadere l’URSS, e perché il loro rapporto con tutto il Medioriente è da sempre un grande trogolo di interessi, guerre, liberazioni, sfruttamenti e intrighi. Da allora in poi la storia delle vicende afghane ci è ahinoi ben nota, e per le incredibili combinazioni del mondo globalizzato, le vicende di un popolo e di un paese ignorati per secoli dalla Storia, hanno cambiato perfino il nostro modo di vivere: sono ancora ben visibili nelle nostre piazze e strade i paracarri in cemento che devono difenderci dagli attacchi kamikaze con automobili e camion delle cellule islamiche post-khomeiniste, che proprio dal regime talebano hanno avuto origine, e anche finanziamenti, perché l’Afghanistan, non va dimenticato, è forse il maggiore produttore di oppio ( e quindi di eroina) al mondo. La frettolosa ritirata americana accelerata grottescamente da Joe Biden ( il Presidente che cade dalle scale degli aerei peggio di Gerry Ford e si muove in Medioriente peggio di Jimmy Carter) e l’immediata recrudescenza del regime talebano, ci confermano tristemente ancora una volta che il rapporto tra l’Occidente e l’Afghanistan è inspiegabilmente ancora strettissimo e tragico, a tratti tragicomico.
Ieri l’ANCI, Associazione Nazionale dei Comuni Italiani, si è affrettata a dichiarare che i comuni italiani sono pronti ad accogliere gli Afghani in fuga dal nuovo regime, e perfino Emmanuel Macron ha posato su Instagram la foto di un cargo proveniente da Kabul con la scritta “bienvenue”. Dichiarata fallita in 24 ore la decennale esportazione della democrazia, siamo subito passati alla importazione del dramma, a conferma di un vecchio adagio che diceva che in fondo la politica estera è solo una questione di import–export.
Orde di occidentali che ululano su Facebook contro il Burqa e all’adozione degli afghani tra le foto di una spiaggia e di un piatto di crostacei, militari che battono in ritirata perché i capi delle forze armate hanno lanciato un hashtag su Instagram, e un Paese come il nostro che in 48 ore è passato dalle casse integrazioni e al green pass come unica via per la salvezza dal baratro alla grandeur dell’accoglienza senza se e senza ma, bypassando baldanzosamente le sempre più incipienti e pesanti conseguenze delle tante “accoglienze” più o meno forzose di questi anni. Al Diavolo la geopolitca, la strategia e gli aiuti umanitari, adesso abbiamo i social...a che serve ragionare? Basta un hashtag.
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