17 dicembre 2025

Il fragile rapporto tra verità e politica. Un ricordo di Hannah Arendt

In un mondo, come quello odierno, a cui assistiamo ad un prolificare di notizie totalmente false, alimentate soprattutto dai potenti della terra – politici, grandi della finanza e della comunicazione, ecc. – la ripubblicazione recente di un piccolo testo di grande spessore, “Verità e politica” (Bollati Boringhieri, 2025), mi fornisce lo spunto per commemorare uno dei giganti del pensiero occidentale a cinquanta anni dalla scomparsa, la filosofa, storica, politologa e saggista Hannah Arendt, nata in Germania da una famiglia ebrea ad Hannover il 14 ottobre 1906 e fuggita, per sottrarsi alla persecuzione nazista, nel 1940 negli USA, dove morì il 4 dicembre 1975. Per farlo, partirei da un documento per me sconvolgente sul rapporto tra verità e politica.

“Il 9 aprile, bande di terroristi attaccarono pacifico villaggio di Deir Yassin, che non era un obiettivo militare, uccidendo la maggior parte dei suoi abitanti (240 tra uomini, donne e bambini) e trasportando alcuni di loro come trofei vivi in una parata per le strade di Gerusalemme… i terroristi, invece di vergognarsi del loro atto, si vantarono del massacro, lo pubblicizzarono e invitarono tutti i corrispondenti stranieri presenti nel paese a vedere i mucchi di cadaveri e la totale devastazione a Deir Yassin… All’interno della comunità ebraica hanno predicato un misto di ultranazionalismo, misticismo religioso e superiorità razziale. Come altri partiti fascisti sono stati impiegati per interrompere gli scioperi e per la distruzione delle unioni sindacali libere. Al loro posto hanno proposto unioni corporative sul modello fascista italiano”. Questo gruppo era guidato dal futuro primo ministro israeliano Menachem Begin, capo del Partito della Libertà, creato al momento della proclamazione dello Stato di Israele nel 1948.

Chi è l’autore di questo testo? Un terrorista islamico? Qualche nostalgico comunista italiano? Affatto: si tratta di un documento-appello di ventotto intellettuali ebrei, tra i quali spiccano i nomi di Hannah Arendt e di Albert Einstein, inviato alla redazione del New York Times, il 2 dicembre 1948, per denunciare la doppia faccia di Begin, giunto negli USA per una raccolta fondi a sostegno del nuovo stato israeliano, ma che aveva ideato l’attacco “terroristico” contro un villaggio palestinese senza colpe: “Le confessioni pubbliche del sig. Begin non sono utili per capire il suo vero carattere. Oggi parla di libertà, democrazia e antimperialismo, mentre fino ad ora ha apertamente predicato la dottrina dello stato fascista. È nelle sue azioni che il partito terrorista tradisce il suo reale carattere, dalle sue azioni passate noi possiamo giudicare ciò che farà nel futuro”. Terribile l’ultima frase: dalle sue azioni passate noi possiamo giudicare ciò che farà nel futuro. E’ da qui che parte la strada che porterà la destra israeliana all’omicidio di Yishaq Rabin nel 1995 e al genocidio di Gaza oggi?

Ed ecco la prima riflessione. Pensate che Hannah Arendt, con gli altri, fosse contenta di denunciare a chiare lettere un misfatto compiuto da ebrei? Aveva forse rotto ogni legame con il proprio popolo, che in minima parte era uscito miracolosamente indenne dal genocidio organizzato da Hitler? Non era rimasto in lei alcun tipo di solidarietà con la sua gente che aveva rischiato l’annientamento? 

Niente di tutto questo. La Arendt si sentì sempre ebrea prima che tedesca. Il suo grande amico, maestro ed estimatore, il grande filosofo Karl Jaspers, trovava poco comprensibile tale posizione: "È strano per me che come ebrea tu voglia essere diversa dai tedeschi". Quando Hitler prese il potere nel 1933, lei incominciò un’attività di aiuto a favore degli ebrei che fuggivano, cosicché la sua casa divenne un punto di rifugio e di transito per i perseguitati. Fu arrestata e detenuta dalla Gestapo per un breve periodo. Fu privata della cittadinanza tedesca e quando fuggì a Parigi, all’arrivo delle truppe tedesche nel 1940, finì in prigione come apolide. Qui collaborò con altri ebrei per salvare bambini fuggiti dalla Germania per dirottarli in un kibbuz in Palestina. Nel 1941 fuggì a New York dove rimase per il resto della vita, sviluppando le sue attività di studio e di insegnamento, caratterizzandosi sempre come intellettuale anticonformista, originale, che non aveva timore di assumere posizioni spesso lontane dal pensiero dominante.

E allora perché fu così dura con gli israeliani in questo documento e nel seguire il processo Eichmann (La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, 1963), quando denunciò l’acquiescenza di tanti ebrei con il nascente nazismo? E di tanti tedeschi “brave persone” che non ebbero il coraggio di disobbedire a Hitler? Per lei, l’amore per il proprio popolo è un conto. Tuttavia la verità di fatto è la verità, sempre, dura e inevitabile. Anche quando è scomoda, minoritaria, anche quando suscita critiche, accuse, messe al bando. Per lei la verità sarà sempre l’imperativo etico di chi intende condannare ogni forma di violenza contro gli uomini e le donne, contro gli individui concreti in carne ed ossa. Anche oggi questo dovrebbe essere il faro, l’orizzonte perenne da perseguire da parte di politici e giornalisti, che ogni tanto dovrebbero rileggersi il codice deontologico di riferimento. 

Nello studio da lei dedicato al più devastante fenomeno politico del ‘900, il totalitarismo, non ebbe riguardo ad abbinare in questa categoria nazismo e stalinismo, che invece erano ritenuti opposti dalla maggioranza (Le origini del totalitarismo, 1951, completato poi nel 1966). Il totalitarismo a suo parere non era solo un regime più autoritario e più violento di altri, ma un sistema che intendeva invadere e controllare tutte le sfere della politica, del mondo sociale, della cultura, del tempo libero, anche della famiglia, persino la sfera intima e privata di ogni singolo. Il suo obiettivo fondamentale, interpretato come missione religiosa assoluta, era giungere ad una umanità totalmente nuova, utilizzando una politica del terrore all’interno e una politica estera tesa all’aggressione di altri popoli fino ad un dominio mondiale. Fondamentale di ogni totalitarismo è una narrazione forzata che cambia totalmente la visione del mondo delle masse, modificando la loro percezione della realtà, investendola di continuo di slogan, di messaggi, terremotando la loro percezione quotidiana. Si facevano vivere le persone, scrive la Arendt, “in un condizionamento a causa del quale essi percepiscono la realtà non più come la somma totale di fatti duri e inevitabili, bensì come un agglomerato di eventi e parole in costante mutamento, nel quale oggi può essere vero ciò che domani è già falso”. Un’affermazione che sembra riferita ai nostri giorni.

Per la Arendt tutto ciò era inaccettabile, inconcepibile e insostenibile: “non l’Uomo ma gli uomini abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della terra”. Al centro del suo pensiero si collocava la pluralità umana. Chi perseguiva l’esaltazione dell’Uomo, come se esistesse una essenza umana universale magari incarnata in un popolo o in una religione, che prescinde dai singoli, può giungere a ritenere irrilevanti “gli uomini” con le loro differenze, che nel progetto totalitario devono divenire completamente manipolabili. Questa donna coraggiosa e acutissima difendeva ogni forma di pluralismo, che prevedeva il confronto aperto, l’inclusione dell’altro, anche dell’estraneo, dello straniero, del diverso. L’altro, la relazione, ci costituisce.

Questo dovrebbe essere l’impegno etico per tutti. Come ebbe a scrivere Marco Ceruti in una intervista: “la stessa Arendt, sulla scia del maestro Karl Jaspers, dopo gli orrori dell’Olocausto, faceva appello a una “colpa metafisica” di tutti in quanto appartenenti al genere umano e, pertanto, parimenti corresponsabili del male compiuto dall’umanità, a prescindere dall’appartenenza nazionale o etnica specifica di chi perpetra direttamente questo male”. Rispetto assoluto dell’individuo, dunque, la cui nascita va intesa come origine del mondo. Non si possono calpestare i singoli per salvare o difendere un popolo, una religione, un’utopia politica.

E’ a questo punto che si possono inserire riferimenti al testo “Verità e politica”, che tutti coloro che intendono fare politica, giornalismo e informazione, cultura, dovrebbero leggere. E meditare, senza dimenticare che la Arendt partiva da una concezione “alta”, nobile, ambiziosa della politica quando rientra nella sfera dell’azione e del discorso. Scrive: “L’oggetto di queste riflessioni è un luogo comune. Nessuno ha mai dubitato del fatto che verità e politica siano in rapporti piuttosto cattivi l’una con l’altra e nessuno, che io sappia, ha mai annoverato la sincerità tra le virtù politiche. Le menzogne sono sempre da considerare dei necessari e legittimi strumenti non solo del mestiere del politico o del demagogo, ma anche quello dello statista… E’ forse proprio dell’essenza stessa della verità essere impotente e dell’essenza stessa del potere essere ingannevole?”

E’ legittimo chiedersi dove stia il nocciolo di questo permanente attrito tra verità e politica, che si acuisce non certo per la cattiveria, la malafede, il machiavellismo dei politici, ma sulle verità di fatto, le verità del quotidiano, nel mondo dei corpi e dei senti, vissuta. A suo parere la tensione tra verità e politica è connaturata alla loro “natura”. Se la politica, come sostiene anche di recente Carlo Sini, è l’esercizio attivo della potenza, cioè della forza, nelle due versioni della contrapposizione e della negoziazione (conflitto e diplomazia), la verità dal canto suo è sempre cogente, dispotica: “Considerata dal punto di vista della politica, la verità ha un carattere dispotico. Essa è per questo odiata dai tiranni, che giustamente temono la concorrenza di una forza coercitiva che non possono monopolizzare, ma gode di uno status piuttosto precario anche agli occhi dei governi che si basano sul consenso e aborriscono la coercizione”

E aggiunge: “Il guaio è che la verità di fatto, come ogni verità, esige perentoriamente di essere riconosciuta e preclude il dibattito, il quale costituisce l’essenza stessa della politica. I modi di pensiero e di comunicazione che hanno a che fare con la verità, sono necessariamente dispotici; essi non tengono conto dell’opinione altrui…”. E più avanti: “I fatti si affermano con la loro ostinatezza… Nella loro ostinatezza i fatti sono superiori al potere: essi sono meno transitori delle formazioni di potere”. Per questa ragione sono odiati, combattuti, manipolati dai potenti della terra, i quali combattono meno i nemici esterni degli oppositori interni o dei critici, come narratori e storici, che insegnano ad accettare le cose così come sono, cioè possono essere sinceri. La verità fattuale è un limite a qualunque politica.

Il pericolo più grande che corre la verità non è tanto la sua negazione, quanto il suo ridurla a opinione, cioè a qualcosa di “opinabile”, “discutibile”, rivendicando il diritto alla libertà di critica. Una “pratica” questa che è stata fatta propria ai giorni nostri ad esempio dai no-vax. Che alcune patologie gravissime sia state praticamente eradicate con l’introduzione di vaccini da dato di fatto è diventa una opinione e la sua negazione un “diritto”. Cito solo i casi del vaiolo, scomparso nel 1979, mentre sul finire degli anni ’60 era ancora endemico con la morte di quasi 2 milioni di persone all’anno. E della poliomielite. In Italia, nel 1958, furono notificati oltre 8mila casi – io me l’avevo beccata nell’agosto 1942 mentre mio padre stava spezzando le reni alla Grecia – mentre l’ultimo caso in Italia è stato notificato nel 1982. A livello mondiale dai circa 350 mila casi registrati nel 1988 si è passati ai 223 casi di bambini non vaccinati nel 2012. Queste sono verità di fatto, non opinioni, che si impongono in modo “dispotico”. Come affermare che “l’acqua la va in bas”, una verità data, come dicevano in nostri contadini. Per questo andrebbero protetti e salvati coloro che raccontano la verità fattuali. “La funzione politica del narratore – storico o romanziere – è di insegnare ad accettare le cose così come sono”.

Uno dei lasciti più importanti, questo, della civiltà occidentale, che troppi potenti vorrebbero distruggere. Scrive Hannah Arendt in conclusione del suo breve testo: “La ricerca disinteressata della verità ha una lunga storia; la sua origine, in modo caratteristico, precede tutte la nostre tradizioni teoriche e scientifiche… Penso che si possa far risalire al momento in cui Omero scelse di cantare le imprese dei troiani non meno di quelle degli achei, e di celebrare la gloria di Ettore, il nemico e l’uomo sconfitto, non meno della gloria di Achille, l’eroe del suo popolo… nessun’altra civiltà, quale che fosse il suo splendore, era stata capace di considerare alla stessa stregua l’amico e il nemico, il successo e la sconfitta che, da Omero in poi, sono stati riconosciuti come criteri ultimi del giudizio degli uomini… L’imparzialità omerica echeggia attraverso tutta la storia greca e ha ispirato il primo grande narratore della verità di fatto, il quale è diventato il padre della storia: Erodoto… Questa è la radice della cosiddetta oggettività, questa curiosa passione, sconosciuta al di fuori della civiltà occidentale, per l’integrità intellettuale a ogni costo”.

Una volta accettato e fatto proprio tale principio, ecco che la politica si può aprire alla sua alta funzione, e può riservare soddisfazioni, gratificazioni e momenti di vera pace a chi la pratica in questo modo. Se invece lo ignoriamo, non comprendiamo la natura nobile dell’agire politico: “In questa prospettiva, restiamo ignari del contenuto effettivo della vita politica, della gioia e della gratificazione che derivano dall’essere in compagnia dei nostri pari, dall’agire insieme e dall’apparire in pubblico, dall’inserirci nel mondo attraverso la parola e l’azione, acquisendo e sostenendo così la nostra identità personale e dando inizio a qualcosa di interamente nuovo”. Aggiungendo in un altro testo decisivo: “Il fatto che l'uomo sia capace d'azione significa che da lui ci si può attendere l'inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è possibile solo perché ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità”. (Vita activa, 1958).

Né va dimenticata come vanto della civiltà europea un’altra indicazione sull’agire politico che viene dalla Roma classica, la cui forza di espansione risiedeva certo nella sua macchina bellica (terrestre e navale). E tuttavia sono i Romani che hanno coniato alcuni insegnamenti cardine: accanto al sempre citato “si vis pacem, para bellum”, hanno posto: “audi alteram partem” e “pacta sunt servanda”. Senza dimenticare, come troppo spesso viene fatto: "Pax melior est quam iustissimum bellum". Se la politica non si autolimita, può causare grandi catastrofi. Mentre la negazione della verità di fatto è la menzogna

 

Carmine Lazzarini


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