Il Gattopardo: un romanzo senza il quale non si capisce l’Italia, nemmeno quella del Green Pass
Il 23 luglio di 64 anni fa moriva Giuseppe Tomasi, Principe di Lampedusa, autore di uno dei più grandi romanzi del ‘900 italiano: Il Gattopardo. Unico libro dell’autore, pubblicato un anno dopo la sua morte vinse immediatamente il Premio Strega, e vide in pochissimi anni un successo clamoroso grazie anche all’omonimo film del grande Luchino Visconti, che ne trasse nel 1963 uno dei più grandi capolavori cinematografici di tutti i tempi: memorabile è la scena del gigantesco valzer inedito di Verdi in abiti da debuttanti e divise da ufficiali.
Il libro, che dal punto di vista letterario è indiscutibile, è stato però spesso messo in discussione, e a mio avviso anche svilito, da una certa retorica proletarista che lo ha ritenuto per anni un libro classista, reazionario e decadente. Ma se non si legge Il Gattopardo, non si capisce l’Italia.
La storia credo sia nota: la vita del carismatico Fabrizio Corbera Principe di Salina e della sua enorme famiglia durante le guerre per l’Unità d’Italia, un uomo “a cavallo tra due mondi e a disagio in entrambi” come egli stesso definisce la propria generazione: i due mondi sono quello ormai al tramonto del feudalesimo siciliano e quello rampante delle borghesie filo sabaude del nuovo Regno d’Italia. Il secolo XIX° fu certamente uno dei più sconvolgenti della millenaria storia siciliana: nel 1821 venne abolito il feudalesimo, scelta che di colpo fece perdere alla antichissima nobiltà normanna ogni reale potere, lasciandole una enorme mole di tempo libero, una enorme mole di ricchezze e soprattutto nessun “dovere” pubblico: un mix che non poteva non portare a un secolo di sperperi inimmaginabili, le famose “rondini” con le quali si vendevano a “volate” appunto pezzi di patrimoni fondiari enormi per pagare le elegantissime e lussuose folli abitudini degli aristocratici. Un mondo meraviglioso e decadente, che Tomasi descrive con una maestria impareggiabile, essendone parte, ma con una lucidità critica modernissima. Dalla speculazione su molte di quelle “rondini” si sviluppò da un lato la nuova borghesia, ma ahimè anche quel fenomeno mafioso che tanto male ha poi fatto alla Sicilia e all’Italia tutta. Fieramente infatti Don Fabrizio usa in tono di spregio il termine mafioso, salvo poi doversi arrendere a dare in sposo per questioni di patrimoni il proprio nipote ad un torvo arricchito locale, che del mafioso ha molti tratti.
E’ però nello splendido, rassegnato, monologo del Principe sui mali incurabili della Sicilia che si apre una chiave di lettura del nostro Paese che, soprattutto al Nord, ancora non abbiamo imparato ad usare: il Settentrione non conosce quasi per nulla il Meridione, e lo giudica prevalentemente sulla base di stereotipi assai semplicistici, ancorché veridici. Il Meridione invece conosce assai meglio il Nord, a causa della fortissima emigrazione, e forse lo guarda un po' con la superiorità dei nobili normanni sui borghesi savoiardi... Quella che per i settentrionali è da sempre arretratezza, è invece per Don Fabrizio incorreggibile superiorità: “noi siamo Dèi -dice- e la vanità in noi è più forte di ogni miseria”. Migliaia di anni di storia, di dominazioni estreme, di paesaggi da sogno e climi insopportabili, hanno resi i siciliani, secondo lui, indifferenti a tutto e desiderosi solo di consumarsi, di morire ( e quanto sangue, invero, è stato versato negli anni…). Ed è un po' buffo ma rassicurante invece il modesto e operoso settentrionale Chevalley di Monterzuolo, inviato dal piccolo, borghese, arrivista e vincitore Piemonte a fare ambasce al Principe nel suo immobile e moribondo sfarzo antico. In quel dialogo emerge un’altra lettura folgorante dell’Italia, pur in quei tempi di grandissimi sconvolgimenti geo-politici e rivoluzioni: “noi siamo il Paese degli accomodamenti, non siamo violenti come i Francesi” dice don Fabrizio, un Paese dove “bisogna cambiare tutto perché tutto resti esattamente come era prima”, e dove ogni rivoluzione alla fine è un patto sociale dove si fa un gran fracasso ma non succede mai nulla di veramente nuovo. Per dirla come Gassman ne ll Conte Tacchia “noi italiani sémo un popolo de abbozzoni”, e cioè di gente che subisce passivamente e si uniforma a tutto pur di poter continuare fare quel che vuole.
Siamo anche noi ormai a cavallo tra due mondi e disagio in entrambi: al tramonto del primato occidentale, della società libertaria e ricca dell’edonismo reaganiano, e alle soglie del mondo post-globalizzato, spaventato, digitalizzato e igienizzato dell’era pandemica. Noi occidentali, a buon diritto, ci sentiamo superiori a quel miliardo di cinesi arrivisti e buffi, ma vincenti, che avanzano inarrestabili, e siamo forse tanto rammolliti dall’aver avuto proprio tutto da rassegnarci anche a sparire, facendoci chiudere in casa senza troppe storie inghiottiti dalle Smart TV.
Ma siccome siamo italiani, e quindi il paese degli accomodamenti, in fondo facciamo un gran baccano tra misure restrittive, Green Pass, lockdown etc etc…ma poi se l’Italia vince andiamo a milioni in strada con la benedizione dello stesso Premier che ci vuole tutti col bollino verde, e siccome è estate quel bollino lo mettiamo solo al chiuso dove non ci va nessuno, mentre all’aperto si fa ancora quel che si vuole. Anche se questo, come nelle vicende del Gattopardo, non ci rende immuni dal dramma e delle pericolose conseguenze storiche di ciò che facciamo con troppa leggerezza e melodrammaticità.
Rileggiamo Il Gattopardo in questo anniversario, perchè conoscere è l’unica medicina, l’unico vero tampone, l’unico utile Green Pass, anche per uscire dalla pandemia.
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
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commenti
Annamaria
24 luglio 2021 16:36
"Rileggiamo Il Gattopardo in questo anniversario, perchè conoscere è l’unica medicina, l’unico vero tampone, l’unico utile Green Pass, anche per uscire dalla pandemia."
Un consiglio da seguire, sicuramente!