11 febbraio 2021

Il parroco: "Dopo il Covid resterà la consapevolezza della nostra fragilità, e il bisogno di una fede profonda"

La vita comunitaria si è interrotta, di colpo, a Carnevale. Domenica 22 febbraio 2020 era in programma la festa in oratorio, con i giochi per i più piccoli, la gara della mascherina più bella, la merenda preparata dalle mamme. In via precauzionale si decise di sospendere tutto, anche la tradizionale gita di lunedì 24 al parco acquatico al coperto alle porte di Milano. A Codogno la gente iniziava a morire per colpa di uno strano virus che in poco tempo è divenuto tristemente familiare.


Quel 22 febbraio l’esistenza della nostra piccola comunità è cambiata. Sospeso il catechismo, chiuse le chiese per il culto pubblico, sbarrate le porte dell’oratorio. 

Abbiamo iniziato a vivere chiusi in casa, investiti da mille paure e ben presto anche dallo spettro della morte. I primi mesi sono serviti per imparare ad organizzarsi entro limitazioni sempre più stringenti, gli altri a combattere contro i fantasmi della solitudine, della precarietà, dell’angoscia di essere attaccati da un male invisibile che toglie il respiro oltre che da una crisi economica tanto lenta quanto inesorabile e feroce.

Ci avevano assicurato che ne sarebbe usciti migliori: non è stato così! Ne usciremo come ne siamo entrati. Chi vive la propria esistenza con profondità, chi cerca sempre un senso a quanto gli accade, agli incontri che si susseguono, agli eventi lieti o tristi che sopraggiungono, troverà certamente uno sprone a crescere nella propria umanità e nelle relazioni interpersonali: la sofferenza, se accolta con sapienza nella propria vita, matura, affina, nobilita l’animo umano. La sofferenza è, in fondo, una forma di conoscenza che permette di guardare alla vita con lucidità penetrando il mistero dell’esistenza umana oltre il conoscibile e lo sperimentabile. Chi, viceversa, vive con superficialità, sprecando ore e giorni nell’effimero e nel transitorio, accontentandosi di un orizzonte finito e mediocre, si sentirà soltanto schiacciato da eventi incontrollabili, infastidito perché limitato nella propria libertà d’azione, ma anche smarrito, incapace di dare un significato a quanto vive e quindi assai incline ad anestetizzarsi in tante forme di dipendenze oggi così abbondanti sul mercato.

Forse tra qualche mese potremo ritrovare un barlume di normalità, grazie ai vaccini e ai progressi della medicina. Non illudiamoci, però! Per tornare a vivere come prima ci vorrà tempo, tanto tempo, e non sarà facile. Bisognerà sostenere i tanti che soffrono della “sindrome della capanna” e che ora temono di varcare la porta di casa, di rivedere le persone, di tornare a vivere. Bisognerà aiutare i giovani a ritrovare il gusto della vita reale dopo mesi di “Dad” e di immersione in un mondo virtuale. Bisognerà dare una mano agli anziani a vincere la pigrizia e le calde sicurezze delle proprie dimore.

Dio non voglia che quanto vissuto venga sprecato. Lo dobbiamo ai tanti morti sepolti solo con una semplice benedizione, lo dobbiamo a migliaia di eroi – personale sanitario, forze di polizia, volontari…- che hanno fatto il loro dovere con profondo senso di responsabilità e abnegazione, lo dobbiamo alle giovani generazioni che hanno il diritto di trovare un mondo più umano, solidale, fraterno.

E allora che cosa resterà di tutta questa immane tragedia? 

Mi auguro che resterà la chiara consapevolezza della nostra fragilità e dell’impossibilità di poter sempre e comunque progettare il futuro. Credevamo di essere invincibili e, grazie alla tecnica e alla scienza, di poter governare tutto: la natura ci ha insegnato, invece, ad abbassare il capo e a riconoscere la nostra finitudine e la nostra precarietà. Non è un male riconoscersi vulnerabili, anzi credo che ciò ci possa condurre ad una visione più riconciliata con le cose e con il mondo: ci sono realtà che non si possono controllare e che bisogna accettare pazientemente. La vulnerabilità è sorella dell’umiltà e si accompagna bene con la fraternità: quando si è fragili si cerca il sostegno, l’aiuto dell’altro. La vulnerabilità allontana lo spettro del predominio e dell’arroganza! Ed un ottimo farmaco contro la rabbia interiore!

Mi auguro, poi, che resterà la chiara consapevolezza di quanto siano importanti le relazioni umane e di quali miracoli è capace il vivere comunitario. La cosa che più ci ha angosciato nei mesi scorsi è stata l’impossibilità di celebrare esequie cristiane per i nostri morti e di condividere con gli altri il dolore della separazione. La condivisione della sofferenza è, senza dubbio, un balsamo che lenisce e stempera la lacerazione del distacco! Resterà scolpito, per sempre, il monito levato da papa Francesco in quella piazza San Pietro vuota nella sera piovigginosa del 27 marzo 2020: “Non possiamo salvarci da soli!”: 

Resterà, infine, la chiara consapevolezza che non si può più vivere una fede superficiale e formale. Questa lunga prova che Dio ha permesso (ma non provocato) deve e può rivelare lo spessore della nostra adesione a Lui e al Vangelo. L’eccessiva paura della morte e del futuro incerto sono certo segnali di una fede che va rafforzata e che deve maturare! È facile e comodo credere quanto tutto va bene, quando la tavola è colma di cibo, il lavoro soddisfa e premia e la salute sostiene: il vero discepolo si affida a Cristo soprattutto nei momenti difficili, quando tutto è oscuro e incerto. Questo non vuol dire che i cristiani non possano avere momenti di smarrimento, di angoscia e di incredulità. Ma è proprio in questi momenti che deve sgorgare dal profondo del cuore una essenziale preghiera di affidamento a Dio.

Claudio Rasoli


© RIPRODUZIONE RISERVATA




commenti