Il patrimonio, il lavoro e le Giornate del Fai
Il 26 e 27 marzo, cioè ieri ed oggi, si tengono le “Giornate di primavera del FAI”, il Fondo per l’Ambiente Italiano, che grazie al grandissimo lavoro di centinaia di giovanissimi e meno giovani volontari permette a migliaia di cittadini in tutta Italia di poter accedere ai luoghi del nostro patrimonio culturale e storico. L’organizzazione e la dedizione di questi volontari è davvero sorprendente, e ha in gran parte decretato lo straordinario successo di queste giornate.
Anche noi in Cittadella degli Archivi quest’anno, per la prima volta, abbiamo aperto i nostri spazi a questi giovani e agli affezionati del FAI, con un grande ritorno di pubblico, e di un pubblico educatissimo ed estremamente interessato, dai più anziani fino a famiglie con bimbi piccoli.
Warren Buffet, l’uomo più ricco del mondo, dice spesso che quando ti siedi su una panchina sotto un albero a riposarti, non devi mai dimenticarti che qualcuno prima di te ha piantato quell’albero e messo la panchina. Uno come lui, che ha fatto soldi per 100 o 1000 generazioni, ha ben chiara una cosa dunque: che nemmeno l’ombra di un albero è gratis, e c’è sicuramente da dargli retta. Patrimonio deriva da patrimonium la cui radice è pater, ed indica quindi innegabilmente qualcosa di ereditario. La Treccani ci dice che “con uso estensivo e figurato, il patrimonio è l’insieme delle ricchezze, dei valori materiali e non materiali che appartengono, per eredità, tradizione e simili, a una comunità o anche a un singolo individuo”.
Un patrimonio dunque è in gran parte eredità e tradizione. Non a caso San Paolo nella prima lettera che scrive ai Corinzi dice proprio “tradidi enim vobis, in primis quod et accepi”, vi ho anzitutto tramandato quanto ho io stesso ricevuto, e Winston Churchill amava ripetere con il suo impareggiabile sarcasmo che i patrimoni sono una cosa meravigliosa, soprattutto quando qualcuno li ha messi insieme per te…
Dove voglio arrivare? Che un patrimonio è prima che una ricchezza un lavoro, e quindi una fatica, che nella maggior parte dei casi qualcun altro ha fatto per noi. Centinaia di artigiani, artisti, poeti, committenti, professori, manovalanze, hanno per secoli lavorato migliaia, milioni di ore, per realizzare ciò che noi oggi possiamo visitare in giornate come queste. E che è buona parte di ciò che siamo: non mi smetterò mai di pensare che le azioni di un uomo sono figlie della sua cultura, e che allora in come un italiano affronta anche i singoli problemi del quotidiano, c’è un po' di Dante e un po' di Raffaello, un po' di Marinetti e un po' di Fogazzaro, un po' di Brunelleschi e un po' di Fibonacci. Noi diamo per scontato sempre e troppo quanto dobbiamo a chi è venuto prima di noi, quanto di loro c’è in noi, e quanto chi ci ha preceduto e ci ha lasciato sotto il naso incide nel nostro modo di ragionare e vivere anche le più piccole circostanze.
Quando visitiamo un luogo della nostra cultura, noi non solo “scopriamo” qualcosa di nuovo che non avevamo visto prima, ma “riscopriamo” qualcosa che già, inconsciamente, consociamo e usiamo ogni giorno e che ci porta ad agire in un modo invece che in un altro, a vestirci bene invece che male, a mangiare bene invece che male, a godere del bello e del buono della vita invece che a imbruttirci depressi per tutto quello che non funziona (e a volte purtroppo anche ed evitare di aggiustarlo…)
Tutte queste cose mi sono chiare ormai da tempo ed ho avuto modo di condividerle con voi in molti altri editoriali, ma ieri ho avuto una piccola illuminazione, mentre seguivo una delle visite del FAI nel nostro archivio, guidate da dei ragazzi liceali stupendi quanto impacciati che si sono dovuti imparare in una settimana e raccontare in 15 minuti ciò che io racconto in due ore e ho studiato per mesi. Quando i ragazzi aprivano le cassettiere con i nostri splendidi manifesti sull’Otello di Verdi alla Scala del 1870 o sul primo decennale della Liberazione disegnato da Lucio Fontana, i visitatori si avvicinavano stupiti cercando subito di fotografarli col telefono, così come davanti alle foto della spedizione geografica italiana sul Karakorum o alle sentenze di morte del periodo napoleonico. Perché? Perché in pochissimi secondi scatta un meccanismo che è un misto di immediato riconoscimento di qualcosa di importante e di entusiasmo quasi infantile davanti ad una scoperta. In quell’istante in cui abbiamo fretta di fermare con una foto sul telefono un documento, stiamo scoprendo la nostra storia e contemporaneamente riconoscendola. E torniamo a casa con qualcosa in più, che ci aiuterà sicuramente nelle piccole decisioni di domani.
Ed ecco la piccola folgorazione: mi sono accorto che tutto quello che succedeva era merito di un lavoro. Se quei giovani meravigliosi avevano qualcosa da raccontare e se quei visitatori curiosi avevano qualcosa di cui stupirsi è anche perché da nove anni a questa parte io e chi lavora con me ci siamo dedicati a scovare, ripulire, riordinare, indicizzare, traslocare, ricollocare, ristudiare e rendere disponibile fior da fiore il meglio di quello che avevamo trovato in decine di edifici del Comune di Milano. Il nostro lavoro, è patrimonio, e dovremmo ricordarcelo tutti i giorni.
Ho calcolato che ho passato in Cittadella degli Archivi approssimativamente 16.000 ore, e con me lo hanno fatto almeno altre 10 persone in questi anni. Queste migliaia di ore, come quelle di tantissimi altri colleghi in tutta Italia, sono parte di quel lavoro grazie al quale abbiamo un patrimonio di cui godere e da lasciare a chi verrà dopo di noi.
Nella società dell’immagine totale, ma anche dell’evoluzione indiscutibile dell’alfabetizzazione generale, ciò che ci colpisce di più è paradossalmente l’esperienza cognitiva, cioè da una immagine capire qualcosa, scoprire qualcosa, e poterla poi raccontare agli altri. Il futuro, anzi il presente della cultura e delle istituzioni culturali non può che essere didattico e interattivo. Non può essere altro che reinventarsi e ristrutturarsi per fornire al pubblico un rapporto conoscitivo ed esperienziale con il bene culturale, e non più solo espositivo: nell’era dell’immagine totale, l’immagine non basta più. Occorre una storia da raccontare, una informazione da immagazzinare, un patrimonio da utilizzare.
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
(la foto del professor Martelli è di Irina Mattioli)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
commenti
giuseppina
27 marzo 2022 12:30
intervento molto interessante che invita alle visite promosse dal FAI e che contribuisce ad apprezzare ancor più l'oggetto di queste visite
Martelli
27 marzo 2022 19:52
Grazie!