Il primo passo è sempre di Dio!
La preghiera è davvero un sacrificio, ha poco da spartire con la spontaneità, con il sentimento, con certi moti del cuore che vanno così di moda al giorno d’oggi. Parte certamente dal cuore, ma ha bisogno della ragione, della volontà e soprattutto della fede. La preghiera è un vero e proprio “sacrificio” perché chiede di mettere da parte se stessi, il proprio modo di vedere e giudicare, per porre al centro della scena Dio e la sua visione sul mondo e sull’uomo. A pregare si impara! È una vera e propria scuola che impone di scoprire alcune dimensioni imprescindibili del discepolato cristiano.
Anzitutto non c’è preghiera senza silenzio! E per noi il silenzio è qualcosa di fastidioso, di inconcepibile. Anche se spesso lo invochiamo, lo cerchiamo, solo dopo pochi minuti ci infastidisce, addirittura ci terrorizza. Siamo immersi nel rumore e lo cerchiamo in ogni dove perché ci distrae da noi stessi, e da quei richiami interiori che giungo dal fondo della nostra coscienza e che ci sbattano in faccia tutte le nostre incoerenze, le nostre ipocrisie, quei famosi scheletri negli armadi che ci fanno arrossire, ma dai quali non vogliamo prendere le distanze sul serio!
Eppure il linguaggio privilegiato di Dio è proprio il silenzio: la sua voce è tenue e leggera, per sua scelta si lascia soverchiare da altre voci più fatue, ma più potenti. Per poter percepire la sua presenza e per poter intessere con lui un dialogo occorre anzitutto il silenzio, l’unico capace di rivelare ciò che essenziale!
In secondo luogo la preghiera richiede una sorta di unità interiore: è necessario raccogliere i pezzi di cuore frantumati dalla nostra vita distratta, dalla frenesia del quotidiano, dalla rincorsa ai mille impegni, dalle tante chiacchiere inutili che inaridiscono l’anima. Siamo spesso “dispersi” è abbiamo bisogno di ritrovare il bandolo della matassa, quel “filo rosso” che ci fa percepire la nostra vita come un cammino che ha una meta precisa a cui tendere con decisione.
Poi siamo così malati di efficientismo che cerchiamo nella preghiera una risposta immediata alle nostre richieste, una soluzione istantanea ai nostri problemi. Molti concepiscono la preghiera come la monetina da inserire nel distributore di bevande: pochi minuti e il caffè è servito, ma i tempi di Dio non sono i nostri! Ma soprattutto le nostre modalità di soluzione spesso non collimano con quelle dell’Onnipotente! Ci lascia trepidare perché ci fidiamo seriamente di lui.
C’è poi un grande inganno nel quale siamo tutti immersi: pensare che la preghiera serva a piegare Dio alla nostra volontà, al nostro sguardo corto e meschino. No, non è così: noi preghiamo per imparare a fare la volontà di Dio, per conformarci al suo disegno sulla nostra vita, anche se è duro, anche se non ci aggrada. La vogliamo smettere di presumere di saperne più di Dio? La vogliamo smettere di insegnargli come fare Dio?
Infine si pensa che pregare significhi investire Dio di parole. Proprio Gesù nel Vangelo ci mette in guardia dall’atteggiamento dei pagani che tentano di sfinire il Signore e di piegarlo al loro volere a furia di parole! Egli sa già di quello che abbiamo bisogno, conosce quelle che sono le nostre necessità: non abbiamo bisogno di informarlo di quello che ci accade nella vita o quali prospettiva si stanno aprendo: noi siamo costantemente sotto il suo sguardo d’amore e di misericordia! Egli ci precede sempre. Pregare è anzitutto ascoltarlo, guardarlo, godere della sua presenza!
Nei giorni immediatamente successivi all’Assunta sono stato pellegrino al santuario di Oropa, un diamante di pietra incastonato armoniosamente in una vallata di origine glaciale ricca di pietre, di faggi e di possenti abeti. Sull’architrave del portale d’ingresso della basilica antica, che costudisce l’antico sacello con la venerata immagine della Madonna Bruna con in braccio il bambino, c’è una iscrizione che ogni volta che la leggo mi lascia commosso e mi fa compiere un grande bagno di umiltà: “O quam beatus, o Beata, quem viderint oculi tui”, che significa “Beati coloro che sono visti dai tuoi occhi”. Mi sembra la sintesi più azzeccata ed esaustiva di tutta l’esperienza cristiana e della preghiera: in fondo quando preghiamo non siamo noi che cerchiamo Dio, ma è lui per primo che ci raggiunge: egli sa già quello di cui abbiamo bisogno, da noi vuole solo che entriamo in comunione, in sintonia con lui, che ci nutriamo della sua bellezza e della sua gloria e che assimiliamo i suoi stessi sentimenti: non è forse vero che più frequentiamo una persona che amiamo e stimiamo e più acquisiamo certi suoi tratti, il suo stile, il suo modo di atteggiarsi di fronte al mondo? Non siamo noi che cerchiamo Dio perché lui per primo ci ha trovato, non siamo noi che conquistiamo o meritiamo il Paradiso, perché ci è già stato donato con la sua morte e risurrezione, non siamo noi che andiamo a vedere Dio, ma è lui per primo che posa il suo sguardo su di noi. La preghiera richiede quindi un grande atto di umiltà e impone di bandire per sempre dal proprio cuore ogni atteggiamento di supponenza, di arroganza, di autoaffermazione di sé. Pregare è morire a sé stessi!
Ecco perché la preghiera è un sacrificio, ma un sacrificio salutare. Quando è fatta bene, con il cuore e non solo con le labbra, porta benefici straordinari. E anche se Dio non ci ha esaudito, percepiamo qualcosa di più grande: quanto sapiente e foriera di bene è la sua volontà. Mi ha sempre commosso la testimonianza di tanti malati pellegrini a Lourdes, uno tra tanti mi disse una volta: “Sono venuto in questo luogo per chiedere la guarigione, ma dinanzi alla grotta sono scoppiato in pianto e ho chiesto a Dio di fare solo la sua volontà”. Quando si è avvolti dalla grazia tutto diventa più bello e più facile.
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