26 ottobre 2021

Il restauro conservativo del Centro Storico: dalla salvaguardia delle tradizioni all’opera di architetti e di restauratori

 Più voci si sono sollevate per affrontare il tema spinoso del centro di Cremona. Sono state espresse numerose critiche rispetto ad interventi non consoni alla Città. Qualche concreta proposta è emersa per contrastare operazioni non solo inadeguate, ma fortemente lesive dell’identità storico-culturale di Cremona. Forse la proposta più spiazzante,  perché meno conosciuta dai proprietari di immobili e pertanto temuta, è la salvaguardia del centro storico con un vincolo da parte del Ministero. Non si entra in particolari di carattere amministrativo-giuridico,  si è però consapevoli che  è ancora notevole l’ignoranza in materia.  

Per affrontare, se pur superficialmente il problema, sia consentita una comparazione fra Cremona e città come Mantova e Parma che si trovano a confine del nostro territorio. Entrambe hanno il centro storico vincolato. Tale strumento legislativo le rende molto più vivaci di Cremona. I cittadini, mentre conservano delle loro città i caratteri distintivi e qualificanti sedimentatisi nel tempo, da questi recuperano tradizioni locali capaci di rendere ancora attivo il centro. Si tratta di stimoli sia per gli abitanti sia per chi si reca a visitare le città storiche. Il turismo urbano, solo per fare un esempio, è strettamente connesso al riconoscimento di valori storico-culturali e di tradizioni locali che s’identificano solitamente in un artigianato di qualità. Le botteghe nei centri storici le mantengono vive, ma ne ricavano anche profitto. Sono queste presenze ad interessare un vasto pubblico.  Cremona ha certo la liuteria, che è un’eccellenza riconosciuta nel mondo, ma l’arte dei liutai da sola non può essere volano né per il turismo né per lo sviluppo d’iniziative locali che abbiano una ricaduta sull’economia. 

L’eleganza di un centro storico è fatta di commistione fra storia e tradizione. Si tralascia volutamente il tema dell’economia, in quanto è noto a tutti e parlarne sarebbe mettere il dito nella piaga.  Parma e Mantova sono certamente splendide città, ma non lo è da meno la nostra Cremona. Mentre i centri storici delle altre città vengono valorizzati, Cremona soffre di un’evidente diffusa voluntas moriendi.  Basterebbe, a tale proposito, ricordare quanto denunciato più volte: troppe botteghe del centro hanno chiuso o stanno chiudendo. Si dirà che il fenomeno è legato all’età avanzata di chi le gestiva, ma è mancato il ricambio, soprattutto è mancato lo stimolo a continuare una tradizione.  Così a causa della chiusura di molti esercizi commerciali ci si rivolge alla grande distribuzione che propone merci, indubbiamente di qualità, ma che non consentono all’acquirente una scelta personalizzata. Questi compra un prodotto che non corrisponde alle sue specifiche aspettative. Se tutto ciò che è realizzato industrialmente propone una vasta scelta di prodotti, non è così per quanto riguarda manufatti che dovrebbero consentire all’acquirente di proiettare su di essi un segno della propria personalità o di rispondere alle sue specifiche necessità. Si tratta di quell’artigianato che metteva in sintonia domanda ed offerta in quanto dialogavano tra di loro e al contempo salvaguardavano una tradizione che era testimonianza di una cultura immateriale. 

Si consenta di ricordare che fra il XVI e il XVII secolo Cremona perde il suo primato economico quando le sue molteplici attività artigianali subiscono un crollo per l’avvento della produzione industriale d’oltralpe.  

Non si propone certo un ritorno al passato: il tempo non è reversibile, ma si chiede che Cremona nell’artigianato e nel commercio ritrovi quella componente della sua cultura che nel centro storico ben si colloca.     

 Vi è ben altro: le città italiane hanno caratteristiche diverse, ma tutte sono ricche di storia e conseguentemente di memoria e di cultura. Disperdere queste costituisce sopprimerne l’identità che è un valore “non negoziabile”. Va evitata l’amnesia collettiva che ha come conseguenza l’instabilità socio-politica. Quando non si è custodi delle proprie radici, non si può progettare il proprio futuro. Le insicurezze, dovute all’assenza o non comprensione del passato, danno adito a scelte inopportune perché casuali e rapsodiche: si è in preda ad un’entropia intellettuale. Si genera disordine nei comportamenti e il domani è soggetto solo agli avvenimenti che incalzano: il domani manca di un’argomentata  progettazione  capace di contemperare le diverse esigenze.  Non significa certo rinchiudersi nel passato, ma di farne tesoro. 

Chi è estraneo alla propria storia non riesce a comprendere la propria stessa realtà. Disancorato dal flusso del tempo egli vive in una condizione di sospensione. L’amnesia non è solo una patologia del singolo individuo, ma è patologia collettiva. 

È doveroso porsi con atteggiamento umile e “lasciar parlare” la storia. Per guardare al futuro si deve partire da certezze che vengono da lontano. A tale scopo è necessario salvaguardare il centro storico nei suoi edifici e nella sua struttura urbanistica. Perderne i caratteri significa annullare secoli di cultura.  Per questo scelte che ne cancellino l’aspetto in nome di una falsa, quanto dannosa riqualificazione energetica, oltre ad essere espressione di mancanza di avvedutezza, mostrano  l’incapacità di porsi consapevolmente rispetto al futuro. Un tecnicismo, figlio dell’arroganza di chi si affida a miracolosi interventi, va dissuaso. Proposte che allettano il cittadino, solleticate dalle attuali norme in vigore, troppe volte risultano un falso ideologico. Il cittadino ha bisogno di certezze argomentate, non di spot pubblicitari che promettono panacee in grado di salvaguardare il patrimonio immobiliare. 

   I problemi non si risolvono però solo mostrando carenze, incongruenze e dannose proposte, ma essendo propositivi. Credo, a tale proposito, sia doveroso far riferimento al restauro, che si declina in modo diverso rispetto all’oggetto di cui ci si deve prendere cura. Ad esempio: un conto è il restauro della carta, un conto il restauro di un affresco. Nel nostro caso l’attenzione è rivolta all’architettura e alla città. Le prime due  figure che istituzionalmente dovrebbero  (il condizionale è d’obbligo!) essere a  presidio del centro storico sono quella dell’architetto e quella dell’urbanista. Se il corso iniziale dei loro studi è comune, poi le competenze si diversificano. Ciò che per entrambi costituisce patrimonio culturale comune è la conoscenza dell’architettura storica della città. Sono le fonti archivistiche a documentarla: le carte offrono  testimonianze preziose. Ma le carte potrebbero non essere esaustive e neppure sempre veritiere. Diviene quindi necessario interrogare direttamente i manufatti che rivelano le scelte progettuali, le caratteristiche dei materiali utilizzati e le tecniche costruttive. Se i materiali consentono un approccio alla datazione, anche le tecniche costruttive contribuiscono a tale conoscenza. Inoltre, ad esse si deve una puntuale conoscenza: della “macchina” architettonica e di quella intrinseca coesione che mette in dialogo l’immagine dell’edificio con le strutture statiche. C’è di più. Le tecniche costruttive rivelano una tradizione locale che, se riferita anche all’uso dei materiali, rivela il “patrimonio della cultura immateriale” che concorre all’identità della città. L’art. 2 della Convenzione dell’UNESCO del 2003 così ne declina la definizione: “Per patrimonio culturale immateriale s’intendono le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana”. Ciò che si sottolinea, in particolare, non è la singola manifestazione culturale in sé, ma il sapere e la conoscenza che vengono trasmessi di generazione in generazione e ricreati dalle comunità in risposta al proprio ambiente, all’interazione fra natura-ambiente e storia-cultura. La tecnica costruttiva  costituisce di per sé un aspetto che contribuisce significativamente alla memoria del territorio. Inoltre, come già si è fatto cenno, la sua conoscenza consente di “mettere mano” agli edifici del passato. Solo chi sa come è stato realizzato un edificio  sa anche come intervenire. L’architetto, che si approccia ad un restauro conservativo di un edificio storico, necessita di conoscere la sua storia in tutte le sue declinazioni: umanistiche, tecniche e materiche. L’architetto, dedito al restauro, è ben consapevole che il suo intervento è atto a consolidare il manufatto architettonico e, al contempo, a renderne possibile la lettura. Ciò non significa “riportare all’antico splendore” l’edificio, né avere la tracotanza di “rigenerare”la città, perché il tempo, ahimè, non è reversibile. Il giudizio sbrigativo che questa o quella teoria del restauro si equivalgano trova il proprio humus nella mancanza di conoscenza delle argomentazioni che supportano ciascuna di esse. Ciò dà adito ad un atteggiamento qualunquistico che, troppe volte, viene spacciato come un modo per essere intellettualmente aperti: “democratici”. Ciò equivale a sostenere che un medico o un ciarlatano, in nome di una presunta democrazia, dovrebbero essere tenuti in eguale considerazione. Ecco perché si sono andate sviluppando nel tempo, all’interno dei corsi di laurea in architettura le Scuole di Restauro che consentono agli architetti di affinare le proprie conoscenze per indirizzarsi ed eseguire interventi congrui alle caratteristiche  di ciascun edificio.

     Ma intervenire non è compito solo dell’architetto, talvolta è compito del restauratore. Chi è costui?. Una volta nell’immaginario comune l’intervento di restauro era di competenza di chi, non possedendo particolari qualità inventive/estetiche, ma avendo una buona manualità, si dedicava a questa professione. Premesso che questa convinzione non corrisponde alla storia del restauro, si deve osservare che oggi, chi vuole intraprendere la carriera del restauratore deve possedere un’abilitazione specifica. Le conoscenze spaziano dalle discipline storico-umanistiche alle discipline tecnico-scientifiche. Su queste sovrasta la tecnica di cantiere supportata dalla capacità di realizzare un progetto di restauro. Il rapporto poi fra progetto ed intervento è questione della massima delicatezza. Chi ha steso il progetto ha previsto eventuali intoppi in cantiere. Egli sa però dominare e mantenere una ferma congruità fra quanto programmato e l’intervento. Lo studio puntuale è condizione necessaria per intervenire. Solo chi ha redatto il progetto sulla base di conoscenze e studi ha competenze reali. Si vuole salvaguardare veramente l’edificio o si è in preda alla  vanità di abitare in un immobile falsamente prestigioso? Inoltre, scegliere un “mero esecutore” in base ad un presunto minor esborso di quattrini potrebbe comportare seri intoppi a motivo della mancata analisi diretta sul manufatto. Gli imprevisti si pagano in quanto dilatano il tempo dei lavori. Ciò significa, per lo meno, pagare il Comune per l’uso prolungato del suolo pubblico. I ponteggi costano! Ma soprattutto non si dimentichi che il rispetto del bene, cui si pone  mano, consente il suo mantenimento nel tempo. Chi non ha conoscenza approfondita è estraneo al manufatto. Se molti edifici storici abbisognano delle cure del restauratore, queste devono essere congrue al manufatto architettonico. Se si fa riferimento alla storia del restauro a Cremona nel secolo scorso un esempio è particolarmente significativo: palazzo Fodri. Le egregie conoscenze dell’architetto Vito Rastelli hanno consentito ai restauratori un esame puntuale del manufatto. Vito Rastelli ha saputo opporsi alla superficialità di molti cremonesi che volevano per il palazzo un intervento di restauro stilistico. Rastelli, sulla scorta di quanto aveva appreso da Gustavo Giovannoni, ha mantenuto i caratteri propri di ogni parte dell’edificio. L’architetto era consapevole che gli edifici sono strutture non stilisticamente omogenee, ma complesse. L’edificio storico testimonia interventi che si sono succeduti nel tempo, si tratta di testimonianze che non vanno cancellate.  Solo là dove è necessario un intervento di totale rifacimento in quanto è venuta meno una struttura indispensabile all’edificio è compito dell’architetto realizzare un nuovo progetto. Il progetto non deve essere invasivo e non deve umiliare  quanto è pervenutoci. Lo stesso Vito Rastelli ha realizzato lo scalone di palazzo Fodri evitando il “falso storico”.

Parlando ancora di Cremona chi non ricorda che il Dr. GianLuigi Colalucci, molto opportunamente, era stato chiamato ad intervenire anche sui mattoni di Palazzo dell’Arte?. Non si può certo dimenticare che GianLuigi Colalucci è stato allievo di Cesare Brandi. 

Forse i cremonesi potrebbero trovare ulteriore conferma nello splendido intervento realizzato nel chiostro di S. Abbondio dove hanno operato gli architetti Luciano Roncai, Elisabetta Bondioni e Stefania Terenzoni  con la supervisione del Prof. Amedeo Bellini. Sulla scorta del loro progetto l’impresa di restauro ha potuto rilevare patologie e conseguentemente intervenire con grande puntualità. 

Ciò è detto solo per fare alcuni esempi realizzati in momenti differenti, ma tutti rivolti alla conservazione.  Restauri di tipo conservativo condotti in città sono stati quello di Palazzo Cattaneo (progetto e direzione lavori del prof. Alberto Grimoldi e arch. Stefano Corbari), palazzo Roncadelli Pallavicino Ariguzzi (prof. Alberto Grimoldi e arch. Stefano Corbari, e per il Comune di Cremona arch. Ruggero Carletti ), palazzo Grasselli (prof. Alberto Grimoldi e arch. Angelo Landi, e per il Comune di Cremona arch. Ruggero Carletti e arch. Giovanni Donadio). 

Uscendo da Cremona, ma rimanendo sempre in zona e facendo riferimento ad interventi di restauro conservativo che riguardano edifici in centri storici due esempi vanno citati entrambi progettati dall’architetto Marco Ermentini. Si tratta della Scuola elementare Michelangelo Merisi del 1912 a Caravaggio e il Castello di Pandino. Con quanto detto si vuol sottolineare come interventi conservativi nei centri storici siano concretamente fattibili. Certamente si fa torto facendo solo alcuni esempi, ma è doveroso essere consapevoli che il restauro non è finalizzato al rifacimento, né tanto meno consiste nel “ripristinare l’edificio in uno stato di completezza che non può essere mai esistito in un dato tempo”come sosteneva Viollet-le-Duc. 

     L’intervento di restauro su edifici non riguarda solo le parti architettoniche, ma anche affreschi, graffiti, stemmi, lapidi, iscrizioni, tabernacoli, ornamenti come recita l’articolo 50 del Codice dei Beni Culturali del 2004. Il restauratore, che ha effettuato studi accurati sull’edificio, è persona che possiede competenze specifiche in quanto sa declinare teoria a prassi, conoscenze del manufatto a professionalità. Nei casi citati è il progettista che, nel ruolo di architetto, indica ai restauratori quale approccio tenere nei confronti delle superfici lavorate oggetto di restauro. 

 Ma talvolta, è accaduto, soprattutto ancora oggi accade, che sia la diretta conoscenza del manufatto architettonico da parte del restauratore a consentire un approccio corretto all’architetto. Il progetto, supportato dall’analisi delle patologie individuate e dai metodi d’intervento ad esse congrue, consente, dopo aver provveduto a realizzare con metodi adeguati i rilievi, funzionali ad un esatto computo metrico, d’allestire il cantiere e far intervenire altre imprese come, ad esempio, quelle edili per affrontare un intervento “timido”. Così, l’architetto Marco Ermentini definisce la conservazione. Si tratta di procedere ad un consolidamento duraturo nel tempo e, al contempo, di salvaguardare la dimensione storica dell’edificio. Ma le competenze del restauratore non debbono rimanere solo una traccia per il progetto. È doveroso osservare che, oltre a questo, il restauratore deve essere chiamato a realizzare concretamente l’intervento. Le sue competenze debbono tradursi in un’effettiva realizzazione.  Affidarsi ad altre ditte, sarebbe, oltre che scorretto, uno spreco di puntuali conoscenze ed un incongruo approccio al manufatto architettonico. La declinazione dei saperi (quelli dell’architetto e quelli del restauratore) deve trovare concreta realizzazione nell’intervento. Lo scopo preciso è ottenere quella coerenza che l’edificio stesso richiede. Le pietre narrano e documentano.

 

 

 

Anna Lucia Maramotti


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commenti


Michele de Crecchio

28 ottobre 2021 22:11

Condivido tutto, con la sola integrazione che tra i pochi edifici pubblici cremonesi correttamente "conservati" negli ultimi anni credo si possa citare anche l'edificio del Tribunale, lavoro difficile e complesso magistralmente guidato dall'architetto comunale Ruggero Carletti, recentemente pensionato, ma la cui notevole esperienza spero possa essere ancora messa a disposizione, nelle forme consentite dalla legge, di altri edifici storici (e non solo tali) cremonesi.

anna maramotti

29 ottobre 2021 20:41

Ringrazio, molto opportuna l'integrazione. Mi auguro anch'io che l'architetto R. Carletti rimanga una presenza attiva sul nostro territorio perché i suoi interventi sono segno di grande competenza e sensibilità