L'auto di Falcone, il cavallo del Pitré e l'Italia che non funziona
A Milano in questi giorni è esposta in piazza Duomo una scultura assolutamente unica: una grande teca di vetro che contiene un groviglio raccapricciante di tubi e lamiere in cui l’unica cosa riconoscibile è una ruota. Si tratta della cosiddetta “Quarto Savona 15”, ed è il relitto pressato dell’auto di scorta di Giovanni Falcone, in cui morirono tre agenti di protezione nel maggio di 30 anni fa a Capaci. Il nome viene dal codice radio con cui l’auto era identificata nelle comunicazioni. Gira l’Italia per ricordare a tutti noi una delle pagine più tetre e centrali della nostra storia recente di cui celebriamo quest’anno, appunto, i trent’anni.
Quando l’ho guardata, mi è improvvisamente riapparsa l’immagine del piede d’elefante di Chernobyl: una orrenda massa rugginosa che sembra un enorme rigurgito di vomito lurido e pietrificato, una specie di blob radioattivo che in chimica si chiama “corium” e che è il materiale fuoriuscito dal collasso del reattore nucleare, un misto di combustibile radioattivo e pezzi fusi dell’acciaio e cemento che lo contenevano. I fisici dicono che un uomo esposto anche solo a distanza ravvicinata con esso muoia in meno di mezz’ora per la sua devastante carica radioattiva. Il tragico prodotto di un disastro umano, il cuore nero di Chernobyl.
L’auto della scorta di Falcone gli rassomiglia stranamente. Forse perché in fondo non è dissimile: è il frutto malato di disastro umano, uno dei cuori neri dell’Italia. Ed è estremamente interessante che entrambi siano di una deformità ributtante. Narra Franco Cardini che nel Casentino Dante ebbe dal santo eremita Niceforo le indicazioni su come descrivere Satana nella sua Commedia: “Sappi però ch’egli, in quanto Male, è la negazione del Bene. Se Dio è puro Spirito, dovrai rappresentarlo nel punto della materia più bruta e pesante”. La materia più bruta e pesante…come il corium, come il relitto dell’auto della scorta.
Il Male è una deformazione del Bene, San Tommaso ce lo ha spiegato più che egregiamente otto secoli fa, e il termine “mafia”, paradossalmente, conferma proprio questa tetra contraddizione tra bellezza e deformità: secondo il grande antropologo siciliano Giuseppe Pitré, l’aggettivo “maffiuso” stava ad indicare orgoglio, baldanza quasi sensuale ed una tale sicurezza di sé, la cui degenerazione non ha tardato ad indicare spavalderia, arroganza, violenza e a identificare il fenomeno criminale per eccellenza che Buscetta ci disse in realtà non chiamarsi Mafia ma Cosa Nostra, e di esser fatta da uomini d’onore (appunto…) e non da mafiosi. Perfino Luciano Liggio, il primo sanguinario capo dei corleonesi, arrivò in una surreale ma paradigmatica intervista a Enzo Biagi ad affermare che quando in paese passava un bel cavallo, si diceva “quant’è mafiusu stu cavallo!”.
Noi siamo portati, in generale come società umana, a tipicizzare i cattivi, a indentificarli in caratteristiche ben precise, perché questo ci rassicura, ci da l’idea che il male è qualcosa di altro da noi. I Nazisti sono i cattivi, i bolscevichi sono i cattivi, i neri sono i cattivi, i meridionali sono i cattivi, i barbari sono i cattivi e via dicendo... La stessa cosa è avvenuta negli anni con la Mafia, per cui ci siamo abituati a tipizzare il mafioso come un cliché, o del gangster americano ben vestito alla John Gotti, o della belva zotica alla Riina, o al massimo del politicante corrotto che con la Mafia intreccia rapporti incestuosi a doppio filo. Quindi, tendenzialmente qualcosa che noi in generale non siamo nemmeno lontanamente. Falcone invece ammoniva spesso che la Mafia “è una sublimazione e una distorsione di valori che sono propri di larghi strati delle popolazioni del Sud”, beccandosi peraltro delle critiche feroci.
Antonino Caponnetto diceva senza mezzi termini che la Mafia è “la degenerazione ultima della cultura del clientelismo, del favoritismo, dell'appropriazione di risorse pubbliche per fini privati”. E proprio Falcone arrivò a scrivere che “la mafia non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia”. La Mafia è una degenerazione organizzata, territoriale e criminale della “italianità”.
Quando un cittadino onesto non ottiene attraverso le vie lecite ed ufficiali ciò che per diritto gli spetta come giustizia nei tribunali, cure negli ospedali, efficienza nelle istituzioni etc… c’è già l’embrione di un fenomeno mafioso. E quando un cittadino è costretto per ottenere ciò che gli spetta di diritto a ricorrere a conoscenze personali, amicizie, sotterfugi, favori, siamo agli inizi della degenerazione in un fenomeno mafioso. E quando un cittadino usa questi strumenti per ottenere ciò che addirittura non gli spetta per merito o per diritto, beh, per come la vedo io, quella è già “mafia”.
Per me che sono un funzionario dello Stato, l’inefficienza nei servizi è l’embrione di un fenomeno degenerativo che diventa mafia. La banca o la società elettrica che cercano di fregarmi centesimi sulle commissioni o le bollette camuffandole nei rivoli delle illeggibilità, per me sono l’inizio di quella degenerazione che diventa poi mafia.
Spesso, quando guardo l’Italia di oggi e la mia quotidianità, e mi rendo conto che tutto funziona sempre di meno e che sempre più siamo costretti ogni giorno a difenderci perfino da quelle istituzioni che dovrebbero offrirci servizi e risolverci problemi, ho quasi l’impressione che la Mafia abbia avuto la sua schiacciante rivincita a trent’anni da Capaci: perché forse abbiamo sconfitto le belve zotiche alla Riina, ma non certo quella cultura di cui parlava Caponnetto.
Quel rottame in piazza è memoria storica, un po' uno schiaffo in faccia che ci dice che forse non siamo poi così vincitori a distanza di 30 anni da Capaci.
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
(la foto del professor Martelli è di Irina Mattioli)
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