28 novembre 2021

L’ Avvento, il tempo dell'attesa che cerca

Qualche anno fa su un muro della metropolitana di Roma campeggiava a titoli cubitali: “Non aspettare Godot, cercalo!”. È chiaro il riferimento all’opera teatrale del drammaturgo irlandese Samuel Becket “Aspettando Godot”, uno dei capolavori del teatro dell’assurdo nel quale si narra l’attesa infinita di questo misterioso personaggio da parte di due uomini, vestiti come barboni, sotto una pianta, in una desolata stradina di campagna. 

La frase vergata dal writer capitolino è, dunque, un ironico invito alla ribellione di fronte ad un’attesa infinita, ad un inattivismo logorante, alla mancanza di intraprendenza, di dinamicità. Se Godot non arriva, non si può continuare a sprecare tempo ed energie nell’attesa, occorre andare a stanarlo dove vive!

L’Avvento è proprio il tempo dell’attesa attiva, dell’attesa che cerca. Al pari della Quaresima, con la quale condivide l’austero colore viola della liturgia, esso è definito dalla Chiesa “tempo forte”, cioè un periodo di maggior impegno rispetto al solito, vera e propria occasione di grazia per ritornare in sé stessi, fare verità nel proprio cuore purificando le proprie attese e i propri desideri.

Solitamente quando si attende impazientemente qualcuno o qualcosa è perché si avverte un vuoto, una mancanza da colmare: una madre aspetta il figlio dopo un lungo viaggio, un bambino freme per un avvincente gioco che giungerà solo a Natale, un uomo si strugge per un “sì” dalla donna amata.

Per il cristiano questo vuoto è rappresentato dalla propria umanità imperfetta, che è già stata redenta da Cristo, ma che è ancora minacciata dalla morte, dalla malattia, dal peccato. È quel “già” e “non ancora” che dovrebbe far ardere di desiderio il cuore del credente: egli assapora già la vita eterna, la felicità che non avrà mai fine e che nessuno potrà strappargli, ma essa non si è ancora svelata in tutta la sua bellezza e magnificenza. Manca “quel qualcosa” che ci ricorda che siamo sempre “in cammino”.

Il tempo dell’Avvento dovrebbe, quindi, spingere il cristiano a coltivare questa “nostalgia” di pienezza di umanità - che in ultima analisi è la santità - e che gusterà solo quando Cristo ricapitolerà tutto in sé. 

Anche il Creato così magnifico e maestoso rivela la propria finitudine e fragilità e aspetta anch’esso il momento del suo compimento: nel Vangelo di questa domenica – iniziamo a leggere Luca dopo che per un anno ci ha accompagnato Marco – si parla, infatti, di potenze dei cieli che saranno sconvolte, di segni nel sole, nella luna e nelle stelle, di fragore di mare e di flutti che causeranno angoscia e paura grande tra gli uomini. Non la terra, non le conquiste tecniche o scientifiche, non il progresso digitale potranno offrire all’uomo il significato ultimo del vivere e del morire: la salvezza, nella sua totalità, è sempre opera del Cielo!

Tutto questo non deve certo immobilizzare il credente nella convinzione che tutto sarà fatto o risolto da Dio: l’attesa per il cristiano non è mai passiva! Quel Regno, bramato come liberazione e perfezione dell’amore, può e deve essere anticipato nel presente, attraverso un rifiuto convinto del peccato che umilia e mutila l’umanità di ciascuno e l’impegno a edificare una società fraterna, solidale e sostenibile.

Il cristiano è ben consapevole che con le proprie forze non è capace di portare a perfezione nulla, che ha continuamente bisogno di Dio per interpretare e governare il proprio cuore e la realtà che lo circonda, ma allo stesso tempo riconosce di aver in dono quegli strumenti necessari per anticipare, per far germogliare, per intravedere quel tempo nuovo in cui avrà stabile dimora la giustizia e la pace. Ecco perché di fronte ad una fragilità del Creato che si manifesta così palesemente, il discepolo di Gesù non può che risollevarsi ed alzare il capo, cioè puntare gli occhi al Cielo, da dove verrà la liberazione dalla precarietà del vivere.

Attendere in maniera operosa, attiva, significa anche vegliare in ogni momento, cioè essere totalmente immersi nella realtà in cui si è, accentandola e cercando di cambiarla sempre in meglio. Occorre dunque sconfiggere la tentazione di fuggire – dinanzi alle responsabilità o ai problemi della vita – dal presente rifugiandosi in paradisi artificiali che inebetiscono e anestetizzano la coscienza umana: Gesù condanna senza appello il cuore appesantito da dissipazioni, ubriachezze e ansie della vita. 

Attendere, vegliare attivamente vuol dire anche interrogarsi sui propri desideri più profondi. È vero che siamo ciò che desideriamo e l’Avvento può essere l'opportunità per capire qual è la nostra scala di valori, cosa ci interessa del futuro, cosa davvero scalda il nostro cuore, per cosa siamo pronti ad alzarci in piedi!

 

Claudio Rasoli


© RIPRODUZIONE RISERVATA




commenti