L’inganno del cipresso e il mercato del passato. La salvezza dell’Italia è nel vendere, con gusto e intelligenza, ciò che custodiamo.
“Itaque in praeteritum tempus animus mittendus est”, scriveva Seneca a Polibio. Bisogna rimettere davanti all’occhio della mente il tempo passato. Sono irrimediabilmente convinto che la conservazione e la valorizzazione sono i due piedi su cui cammina il patrimonio culturale: e su un piede solo non si cammina, si zoppica. Conservare il passato senza farlo conoscere e godere non solo è sbagliato, ma anche tremendamente sconveniente. Ma valorizzare è una attività che richiede gusto, buon senso, lavoro e un po' di sana furbizia.
La storia dell’Italia è storia di glorie e conquiste, ma soprattutto di sopravvivenza da e con lo straniero che infinite volte è passata dal “commercio” del nostro patrimonio avìto. Nell’Alto Medioevo il traffico verso l’estero dei marmi spogliati dall’antica Roma era fonte primaria, ancorché discutibile, di sopravvivenza del nostro popolo. Nel 1700, la seconda fonte di ricchezza dopo la Chiesa a Roma era la riproduzione dei classici per gli acquirenti continentali, che fece la fortuna dei vari Bartolomeo Cavaceppi e compari. Dopo il secondo trattato di Parigi del 1815, fu permesso a tutti gli stati conquistati dal Bonaparte di riprendersi le opere d’arte sottratte: tutti se le ripresero, tranne noi italiani. E in alcuni casi per motivi molto più intelligenti di quanto pensiamo oggi. Il Papato preferì lasciarle a Parigi per rievangelizzare le “Gallie giacobine”, mentre i toscani ritennero che in Francia avrebbero fatto grande pubblicità in Europa alla loro arte.
Il rapporto degli italiani con lo straniero è imprescindibile dal nostro patrimonio culturale, che è al contempo attrazione fatale e risorsa di salvezza. Per la nostra bellezza siamo oggetto da sempre di avide conquiste, per la nostra bellezza siamo stati risparmiati e salvati. E chi scrive ha la netta impressione che tanto stia accadendo, e accadrà, proprio in questi tempi di pandemia e in quelli di post pandemia…
Da più di un decennio trascorro tutte le mie vacanze a Pienza, gioiello di arte e natura della Toscana senese. Uno dei luoghi più fotografati al mondo, patrimonio Unesco proprio per le sue tondeggianti colline gialle e per i suoi cipressi dritti e scuri, divenuti manifesto mondiale della perfezione della natura, dove perfino Ridley Scott ha fatto passeggiare il suo Gladiatore... Ecco, proprio quei cipressi, simbolo universale della Toscana e quindi dell’Italia, che sembrano ergersi da quelle colline fin dalla Genesi biblica, sono uno splendido inganno. James Temple Leader, ricchissimo intellettuale inglese, acquistò il castello di Vincigliata vicino alla Firenze di metà ’800, lo ricostruì e ne fece il circolo mondiale degli inglesi italofili, anticipo di quella “Renaissance americana” che vide i nuovi magnati d’oltreoceano spendere fortune colossali per portarsi in America un pezzo d’Italia, e avere in Italia un pezzo di America. Siccome il Temple, da buon paladino del romanticismo inglese, era ossessionato dagli scenari gotici di Böcklin pieni di neri cipressi, si mise a piantare cipressi ovunque. E la natura mutò, per seguire il gusto (e anche il denaro) degli angloamericani. La Firenze di fine ‘800 cambiò moltissimo (con furor di polemiche di allora) per andare incontro alla danarosa invasione delle aristocratiche inglesi che volevano la loro “Camera con vista”. Parlate con qualunque vecchio pientino d.o.c. e vi dirà che una volta lì c’erano i lecci e i mandorli, ma mica i cipressi. L’artista Daniel Spoerri diceva: “La natura? È terribile la natura, è piena di mosche e pericoli! Io adoro la Toscana perché la natura lì, l’ha fatta l’uomo”.
Mercimonio del paesaggio? Forse, ma sfido chiunque a dire che quei cipressi e quelle colline non siano una meraviglia assoluta, ristoro dell’anima e risorsa turistica straordinaria. Bellezza e risorsa, ecco la nostra unica via. Quella riscoperta del passato, adattato ai tempi, della Toscana amata dagli inglesi: quello è un modello a cui ispirarsi. Le vere ferite all’Italia le abbiamo inferte per fare affari negli anni ’60 e negli anni ’80 in economie che ormai sono state fatte a pezzi delle concorrenze intercontinentali. Che oggi sono più ricche di noi, più organizzate e più agguerrite.
Cina, Giappone, Corea hanno indiscutibilmente vinto la guerra al virus. USA e Inghilterra hanno indiscutibilmente vinto la guerra dei vaccini. L’Unione Europea, ahinoi, ha perso sbigottita su tutta la linea. E questo non potrà non avere ripercussioni politiche, forse anche geopolitiche, gravi se non gravissime.
Antonio Paolucci, notissimo storico dell’arte direttore dei Musei Vaticani e già Ministro dei Beni culturali, ha detto recentemente che l’Occidente vive una stagione di graduale oscuramento, che l’Europa ha già dato il suo meglio, e che le grandi innovazioni culturali future verranno dall’Oriente. Durante la “Prima Repubblica” noi italiani prosperavamo grazie ad eccezionali equilibrismi tra gli USA capitalisti, l’URSS comunista e il Medioriente fondamentalista portando a casa vantaggi da tutti e tre. L’esito della pandemia ci costringerà, se siamo svegli, a fare i conti con nuovi posizionamenti internazionali.
Aldo Gucci, l’uomo che fece della bottega paterna il primo colosso mondiale della moda, diceva: “Our Secret? Gucci is like an italian Trattoria. The family is in the kitchen”, il segreto di Gucci è che è come una trattoria italiana, la famiglia sta in cucina a preparare squisitezze secondo la tradizione, anche se ha clienti in tutto il mondo.
Ecco: i nouveaux riches, i nuovi ricchi clienti all’Italia non mancheranno, ma è tempo di tornare in cucina a fare squisitezze con la nostra ereditata tradizione, insegnando il gusto a chi non l’ha, ma andandogli anche intelligentemente incontro.
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
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