3 febbraio 2022

L'"Io speriamo che me la cavo" della politica italiana

Doglie lunghe, cruente e sterili, concluse forzando il Presidente uscente a riportarsi al Quirinale gli ormai celebri scatoloni: questi in brutale sintesi sono i fatti. Il panorama umano emerso è di allarmante fragilità e il Re è ormai, a tutti gli effetti, nudo. A nessuno sfugge infatti che dietro la furiosa lotta per bande consumata fra Quirinale e palazzo Chigi non c’è alcun conflitto programmatico su come governare l’Italia (materia ormai oscura e indifferente ai più) ma solo il disperato conato di un sistema dal fiato corto che cerca d’assicurarsi qualche mese di sopravvivenza. La politica evidentemente ne sa una più del diavolo su come restare a galla ma ha poche e confuse idee su come tenere a galla l’Italia.

Come siamo arrivati a questo punto è dunque la legittima e inevitabile domanda del giorno. E un tentativo di risposta che non eluda il cruciale nodo del rapporto fra politici e tecnici deve inevitabilmente partire da lontano. Per esempio, dall’autunno del 1945 quando in una Milano ancora ingombra di macerie non solo materiali lo scrittore Elio Vittorini, siciliano di nascita e milanese d’adozione, fondava una rivista dal nome non inedito: Il Politecnico. Lo stesso nome del periodico che, nella Milano austriaca del 1839 , il ‘gran lombardo’ Carlo Cattaneo, patriota, federalista e intellettuale laico di prim’ordine aveva ideato come 'mensile di studi applicati alla prosperità e cultura sociale'. Un sottotitolo così volonteroso e concretamente promettente non poteva che maturare in una Milano già consapevole del proprio destino manifesto di locomotrice economica del Paese e di laboratorio in cui doveva consumarsi il transito verso un nuovo modello intellettuale che archiviasse per sempre certa vecchia cultura parruccona, astrattamente retorica o pericolosamente cortigiana. Si lavorava a un intellettuale di nuovo conio, capace di autentico impegno civile e positivamente orientato verso scienza, tecnica e tutto quanto può produrre progresso e conseguente benessere. Un’evidente affinità di analisi delle storiche tare italiane e di obiettivi legava dunque il Vittorini del 1945 al Cattaneo del 1839: sollecitare l’impegno civile degli intellettuali e favorire una feconda collaborazione fra i nuovi saperi scientifico tecnologici e i più antichi e blasonati saperi umanistici, tradizionale miniera estrattiva di avvocati, politici nonché svariati professionisti e mestieranti della parola. Chi si metteva al servizio della ricostruzione postbellica transitando dalle colonne del Politecnico -comunista, laico o cattolico che fosse- condivideva la convinzione che in un mondo contemporaneo dominato dall’economia, tipica materia in cui promesse e belle parole non possono eludere la tagliola dei fatti e dei concreti risultati, ci fosse più bisogno di ingegneri, statistici, maestranze qualificate e così via che non di avvocati azzecca garbugli, letterati con la testa fra le nuvole e, per l’appunto, politici di rotonda eloquenza e modeste attitudini operative. Era tempo di passare il testimone a gente disposta a mettere se stessa, le proprie idee, teorie e filosofie alla cruciale prova dei fatti: 'la teoria in senso positivamente e costruttivamente umano non si realizza senza il fare'.

Nel 1947 la breve vita della rivista si concludeva. Ma una ragione ci dev’essere se nei giorni del ‘festival Quirinale’, forse non a caso seguito a stretto giro da quello di San Remo, mi è tornata in mente l’austera e concreta Milano del dopoguerra, illusa di riuscire ad archiviare per sempre ogni infondata presunzione di superiorità della casta politico intellettualoide verso la categoria dei ‘tecnici’. Mi tornava in mente mentre ascoltavo i soliti poveretti che, sbarcati in Parlamento per inesplicabile benevolenza astrale, recitavano con diligenza la canzoncina del giorno: profilo alto, personalità condivisa, sacrale atto elettivo e attenzione a non aumentare la quota dei tecnici in quanto ‘vulnus inaccettabile’ al primato della politica... Bella scoperta. In presenza di una classe politica degna di questo nome sarebbe ovvio che toccano a lei, lautamente pagata per farlo, l’onore, l’onere e la responsabilità di guidare il Paese e definirne la rotta. Ma nel nostro caso la spocchia dei politici - che tuttavia si tengono ben stretto il tecnico Draghi, notoriamente capace di far di conto - è a dir poco indifendibile. Si direbbe piuttosto che i termini della questione vanno capovolti: tocca ai politici scusarsi per non aver capito in tempo utile che, dopo il tracollo delle ideologie consumato nel ventennio finale del ‘900, il naturale esito del loro ruolo e il loro più forte titolo di legittimazione sociale era di farsi loro stessi ‘tecnici’ dimostrandosi in grado per specifica attrezzatura professionale di ‘saper fare le cose’. Esaurita la forza propagandistica e la seduzione dei partiti ideologici era tempo di cambiar pelle, irrobustire e costantemente aggiornare la consapevolezza culturale che ti fa capire dove sta andando il mondo. Occorreva allevare e selezionare nuove classi dirigenti all’altezza dei processi sempre più complessi e interdipendenti che tocca alla politica governare nel nuovo ordine mondiale. Era opportuno stringere, invece che allentare fino alla dissoluzione, il rapporto coi territori e la filiera dei loro amministratori che prima e meglio degli altri capiscono che aria tira e dove stanno le vere criticità. Ma poco o nulla di tutto questo è accaduto. Finite le ideologie si direbbe finita anche la capacità di pensiero politico nel senso criticamente forte del termine. Resta quel navigare a vista e campare alla giornata di cui anche la vicenda dell’elezione presidenziale è stata, per forma e sostanza, schiacciante dimostrazione.

Il Re è dunque nudo. I partiti non sono più interpreti e garanti di un progetto di società ma sgangherati e rissosi comitati d’affari assorbiti dall’urgenza primaria di salvare la pelle dei soci. Tant’è che già si stanno cucendo su misura una nuova legge elettorale all’insegna del più smaccato 'Io speriamo che me la cavo'. Il livello della loro delegittimazione agli occhi dell’opinione pubblica non pare guastarne il compiacimento per averla, anche questa volta, spuntata. Spergiuri, volta gabbana, funamboli e contorsionisti di grande mestiere, sempre e comunque riusciranno a cavarsela. Loro sì. Ma noi? Noi resteremo qui a rispondere per generazioni ai creditori di turno.

 

vittorianozanolli.it

Ada Ferrari


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commenti


Primo Luigi Pistoni

4 febbraio 2022 07:33

Mi permetto di condividere in toto questa analisi spietata. Non ho apprezzato i 55 applausi che hanno interrotto il discorso di insediamento del Presidente-bis. Hanno certificato il livello rasoterra dei furbi/cialtroni di questa classe politica. Auguri Presidente Mattarella, di cuore.

Ada Ferrari

4 febbraio 2022 19:13

Temo anch'io che più che consenso autentico si sia trattato in molti casi di fumo negli occhi, facili applausi al posto di difficili fatti concreti. Il tempo ci dirà.

Anna

7 febbraio 2022 09:06

Una analisi chiara precisa e inequivocabilmente veritiera della nostra (ahi noi) triste ,stanca ,ignobile situazione. Nessun politico ha chinato la testa in segno di vergogna. Anzi! Hanno applaudito ad un Presidente che tirava loro la giacchetta e ne sono felici!!??!. Chissa' se hanno capito che si parlava di loro...mah! Uno spettacolo veramente misero. Comunque sia auguri al Presidente Mattarella che gliele ha cantate quasi tutte.

michele de crecchio

10 febbraio 2022 16:08

Condivido anch'io il pessimistico giudizio complessivo sulla vicenda della sofferta rielezione dell'ottimo Mattarella a capo dello Stato. Aggiungo solo che, poco prima di Vittorini, ma ancora in condizioni di clandestinità, il cremonese Giulio Grasselli (del quale, quest'anno, ricorre il trentesimo dalla morte) aveva realizzato una analoga iniziativa pubblicando alcuni numeri del "Caffè", riprendendo il titolo della pubblicazione periodica degli illuministi milanesi capitanati dai fratelli Verri e dal cremonese Biffi. "Il Caffè" di Giulio Grasselli era stampato a Cremona e le copie che lo stesso Grasselli recapitava a Milano venivano distribuite soprattutto tra gli antifascisti di matrice liberale,