L’Italia al voto e l'arte in politica: da David a Talleyrand i brindisi delle Girelle
Se cadde il Prete,
Io feci l’ateo,
Rubando lampade,
Cristi e pianete,
Case e poderi
Di monasteri.
Se poi la coda
Tornò di moda,
Ligio al Pontefice
E al mio Sovrano,
Alzai patiboli
Da buon cristiano.
Sono alcuni versi de “Il brindisi di Girella” di Geppino Giusti (come lo chiamava il grande amico Manzoni), letterato gustoso e grande patriota che dedicò questa poesia al più abile e famoso voltagabbana della storia, l’uomo che inventò il cosiddetto camaleontismo (che oggi chiamiamo trasformismo) e che ha visto e vede così tanti nostri politici cambiare partito senza batter ciglio e senza il minimo senso di imbarazzo. Capostipite di questa specie ormai endemica e in ottima salute è Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, Duca e Pari di Francia, Vescovo di Autun sotto Luigi XVI, spretatosi e sposatosi divenne Ministro degli Esteri della Rivoluzione, poi Principe di Benevento per volere di Napoleone e poi di nuovo Presidente del Consiglio nella Restaurazione di Luigi XVIII: il vero uomo per tutte le stagioni, che servì il Re e chi gli aveva mozzato il capo senza batter ciglio, per poi servire l’Imperatore che aveva soppiantato entrambi e tornare poi ad essere un fedelissimo dei Borbone ritornati sul trono. Morì serenamente su una montagna di soffici cuscini in pizzo ad 85 anni ricordando al prete che essendo stato vescovo gli spettava l’estrema unzione sul dorso delle mani e non sulla fronte come a un peccatore qualunque: una faccia di bronzo da far impallidire molti parlamentari nostrani ma che almeno era stato diplomatico abilissimo e statista di levatura assoluta, tessitore dei trattati di Versailles e della pace pluri-decennale che ne seguì.
Il suo perfetto omologo in arte è un pittore, anch’egli francese, che si chiama Jacques Louis David e che ha condiviso con Talleyrand lo stesso convulso, terribile e spregiudicato periodo storico. Fu pittore di corte di Luigi XVI ma questo non gli impedì certo di disporsi in pole position alle sei del mattino con carta e carboncino per disegnare uno spettrale ed ingrato profilo di Maria Antonietta portata alla ghigliottina in cuffia e sottana: uno schizzo freddo e spietato eppure tanto moderno da sembrare un disegno di Egon Schiele di cent’anni dopo.
Il nostro eroe passa senza batter ciglio a servire i Rivoluzionari e si ispira niente meno che alla Repubblica di Roma: dipinge Tre Orazi monumentali che ricevono le spade per difendere Roma in omaggio a Danton Marat e Robespierre. Quando quest’ultimo, l’Incorruttibile che tanto credeva nella purezza dell’ideologia da non sapersi nemmeno cucinare un uovo, prendendo a scusa l’omicidio di Marat nel 1793 decide di sterminare realisti borghesi e Girondini e iniziare la feroce stagione del Terrore giacobino, il nostro David è ovviamente al suo fianco. E consegna alla storia la vittima giacobina per eccellenza con uno dei quadri più famosi di sempre: Marat assassinato nella vasca da bagno con la supplica in mano e un turbante in testa, uno dei più riusciti dipinti della storia dell’arte. Andrà perfino di persona a ritrarre il viso del cadavere di Marat fissandolo per sempre in un disegno di una tale perfezione e delicatezza che è possibile solo quando l’enorme talento dell’artista si impone sulla peggiore meschinità dell’uomo. In questo David era un titano, nella capacità di celebrare in maniera indimenticabile gli uomini di potere in scene perfettamente monumentali: un vero superdotato dell’immagine di cui è impossibile scordare un ritratto dopo averlo visto.
Proprio questa sua incredibile capacità di mitizzare e consegnare l’uomo (politico) all’eternità col suo talento lo porterà non solo a salvarsi sempre e a campare da gran signore, ma anche a servire devotamente Napoleone, per cui dipingerà non solo la monumentale incoronazione ma uno dei ritratti più abusati della storia: il generale Bonaparte, novello Annibale, che avvolto da un manto purpureo conquista le Alpi su un cavallo bianco rampante. Una immagine che ancora oggi compare in ogni video clip di pop art e che sembra aver inventato Instagram e gli influencer con due secoli di anticipo. Gigantesco nell’arte quanto nella meschinità? Forse, ma giudicare come uno si arrangia per campare nei marosi della vita è sempre facile, e noi italiani ne dovremmo sapere parecchio.
Diceva Andreotti che tirare a campare è sempre meglio che tirare le cuoia, e Dio sa se noi Italiani conosciamo questo andazzo più di qualunque altro popolo: siamo talmente abituati ai disastri che cerchiamo di uscirne in qualunque modo, girelle comprese.
Domani siamo appunto chiamati ad eleggere quei deputati e senatori che in buona parte non hanno brillato per coerenza, e ahinoi, nemmeno per grande abilità visti gli scenari da incubo che ci vengono continuamente sbattuti in faccia, ma non per questo la sacralità del voto viene meno: personalmente sono sempre andato a votare e lo ritengo non tanto un dovere ma un grande privilegio che oggi più che mai prescinde decisamente dai risultati e anche dal triste spettacolo cui la classe politica italiana ci ha spesso abituato.
In fondo, la storia dell’arte ancora una volta ci dimostra che meschinità, opportunismo e falsità non sono mai mancati, ma anche che le lordure passano e i capolavori rimangono.
Finché c’è arte c’è speranza, anche alle elezioni.
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
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