I russi si fermeranno solo di fronte a un nuovo muro di Berlino. Registriamo anche questa fra le innumerevoli voci che a mani nude, cioè armate dell’unica risorsa della ragione, tentano in questi giorni di comprendere l’incomprensibile. Certo, muro di Berlino vuol dire guerra fredda. Il che mette un brivido. Ma, mentre il ricatto nucleare ci stringe sempre più dappresso con la sua inumana minaccia apocalittica, persino la parola guerra fredda pare rassicurante. E’ infatti calda, anzi caldissima, la guerra in cui la mente oscurata del despota russo ha improvvisamente precipitato il mondo. Se dopo l’incubo ci sarà dato tornare a una qualche parvenza di normalità sarà, appunto, una parvenza. Geopolitica ridisegnata, relazioni internazionali stravolte, economie compromesse nei meccanismi produttivi e commerciali, durissimo colpo inferto alla globalizzazione.
Pare proprio che siamo costretti a rifare i conti con quel Novecento che un superficiale presentismo aveva frettolosamente archiviato come un parente scomodo di cui disfarsi con l’arma, apparentemente efficace, della rimozione storica e psicologica. La storia non dimentica e non consente di dimenticarla. E così a pararsi improvvisamente davanti a opinioni pubbliche atterrite è proprio la parte peggiore del Novecento, fatta di catastrofi belliche, esaltazioni militariste, deliri di onnipotenza consumati sulla pelle di milioni di innocenti. Siamo costretti a rifare i conti col tremendo mistero della presenza del male nell’uomo e nella storia. Altro che pace perpetua ingenuamente vagheggiata -in verità ci siamo cascati tutti- all’indomani della caduta del Muro, potente rappresentazione materiale e simbolica di un’irriducibile logica di blocco contro blocco.
Nel ’94 lo storico Eric Hobsbawm pubblicava un saggio geniale che fece grande rumore: Il Secolo breve. Definiva così il Novecento per il ritardo con cui era storicamente cominciato: fino al 1914, cioè alla prima guerra mondiale, non era stato in fondo che una continuazione dell’Ottocento. Il suo nucleo si sarebbe dunque concentrato fra ‘14 e ‘89: due guerre mondiali o meglio una sola intervallata da un ventennio di inquietissima pace, successiva spartizione strategico militare del mondo fra sfera sovietica e occidentale con conseguente stato di guerra fredda e in fine collasso del sistema comunista e finale vittoria dell’Occidente con le sue democrazie, le sue libertà, il suo mercato. Da allora il mondo voltava pagina e assumendo la
dominante ideologica, fino all’impazzimento totalitario di nazifascismo e stalinismo, come tratto distintivo del ventesimo secolo era sensato sostenere che il secolo fosse finito in anticipo aprendosi alla distensione e ai più pacifici e prosperosi orizzonti del terzo millennio.
Ma le cose non sono andate esattamente così e ci riesce difficile parlare ancora di ‘secolo breve’ mentre tutto pare suggerire sotterranee continuità. A cominciare dal prepotente ritorno di una parola, suggestiva o terribile, da cui la storia umana pare proprio non riuscire a congedarsi: la parola ‘confine’, madre di quasi tutti i conflitti ma anche orizzonte che custodisce e alimenta preziose radici e legittimi sentimenti identitari dei popoli. Putin, improvvisamente incapace di ragionevolezza e blindato in una solitaria ossessione restaurativa, intende riportare avanti i confini della grande Madre Russia a costo di riportare indietro le lancette della storia. Ma, pur con l’abissale differenza che corre fra ruolo di aggressore e di aggredito, è pur vero che lo stesso Zelensky esprime un patriottismo di tale irriducibile rigidità da esigere che il mondo libero lo segua e sostenga militarmente anche a costo di creare irreversibili premesse di terza guerra mondiale e mutua distruzione nucleare. E’ tuttavia curioso che l’eroico e temerario presidente ucraino raccolga i maggiori consensi proprio fra la sinistra di governo e che da quell’ambiente politico culturale si levino esplicite ammissioni che sottovalutare il bisogno di appartenenza e l’istinto identitario dei popoli è sempre pericoloso e sbagliato. Nulla da obiettare se non il vistoso strabismo del giudizio da cui si deduce che quando il patriottismo identitario è ucraino va sotto il nome di eroismo, quando germoglia nei nostri confini e per voce di italiani viene criminalizzato come deteriore sovranismo, razzismo, chincaglieria novecentesca di cui disfarsi in nome del villaggio globale e dei suoi luminosi orizzonti di pace e progresso.
I giorni che stiamo vivendo lasceranno dietro di sé una spinosa eredità di contraddizioni e materiali di riflessione probabilmente suscettibili di divaricare ulteriormente il rapporto fra opinioni pubbliche e istituzioni. E’ infatti evidente che l’endemica instabilità del mondo contemporaneo, passato da un equilibrio bipolare a un più problematico squilibrio multipolare, dovrà mettere in conto ininterrotti flussi migratori in fuga da miseria, guerra e calamità.
In ogni senso gravoso per l’Europa, tutto questo lo è a maggior ragione per l’Italia. Siamo infatti Paese cerniera sia lungo l’asse Nord-Sud che Est-Ovest: condizione ricca di potenzialità strategiche che nessuno ignora o dovrebbe ignorare ma in pari misura di rischi. Quale prezzo pagheranno le nostre società se, accavallandosi senza sosta emergenze umanitarie e biblici esodi di profughi, diventeranno il teatro in cui vengono sistematicamente trasferite e innestate le contraddizioni e i drammi del post colonialismo africano e del post comunismo sovietico?
La domanda è evidentemente periferica rispetto all’urgere di scelte operative in cui la pressione emotiva ha un peso evidente.
Il suggestivo Zelensky ha intonato le note dell’Eroica e l’Europa comunitaria, sulle prime saggiamente restia a un invio di armi che è di fatto belligeranza indiretta ma attiva, si è saldata in una novecentesca mistica interventista. Auguriamoci che all’attuale pontefice non tocchi riparlare di ‘Inutile Strage’ come al grande predecessore Benedetto XV di fronte al devastante macello del primo conflitto mondiale. E rieccoci al Novecento.
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