9 ottobre 2022

La fede, ma anche la nostra umanità, matura con la gratitudine

Non è facile ringraziare, soprattutto le persone più vicine a noi, quelle che frequentiamo tutti i giorni: dai nostri familiari, ai colleghi di lavoro, agli amici che vediamo nel tempo libero. Questa ingratitudine in parte è dovuta al nostro egocentrismo e narcisismo che impediscono di vedere il bene che fanno gli altri – noi siamo sempre i migliori! - ma anche ad una “superficialità” latente, acuita dalla frenesia del nostro vivere quotidiano, che ci fa credere che tutto ci sia dovuto: la minestra fumante quando alla sera torniamo dal lavoro, il letto con le lenzuola profumate e ben tirate, la camicia stirata e lavata. Non ci si rende conto, perché abituati sempre a trovarsi davanti la “pappa pronta”, che chi ci è accanto impiega tempo, energia e fatica per facilitare la nostra vita complicata. Per carità questo vale anche per noi che ci mettiamo a servizio degli altri e che quasi mai riceviamo una parola di riconoscenza per quanto facciamo: quante volte ci siamo risentiti o arrabbiati per non aver goduto di quella gratitudine che, in realtà, noi, per primi, non siamo capaci di manifestare agli altri?

Grazie: questa parola così semplice e comune, se pronunciata con sincerità, riempie di grande gioia il cuore perché rivela attenzione alla realtà, la giusta valutazione dell’operato compiuto, il plauso per un lavoro ben fatto, lo stupore per un beneficio ricevuto, la riconoscenza per aver migliorato il presente attraverso un servizio, un piacere, un regalo. Il “grazie” valorizza e onora la persona che lo riceve riconoscendo che la sua opera è stata “salutare”.

La gratitudine, però, sgorga solo da un cuore umile, da chi ammette di aver bisogno degli altri per essere davvero felice e pienamente realizzato nella propria umanità, da chi guarda la realtà che lo circonda non come una preda da catturare e fagocitare, ma come un dono da ammirare e per il quale stupirsi. Bisogna coltivare uno sguardo “eucaristico” che libera dalla presunzione che tutto sia dovuto, che tutto possa essere arraffato!

Oggi Luca, nel suo Vangelo, ci ricorda che la fede è veramente matura quando diventa spazio di gratitudine, quando si apre alla memoria dei tanti benefici che Dio concede ai suoi figli. Tutti e dieci i lebbrosi hanno un “briciolo di fede” altrimenti non sarebbero corsi da Gesù ad implorare la sua misericordia prima del suo ingresso nel villaggio e non si sarebbero diretti dai sacerdoti ancor prima di essere sanati: la guarigione, infatti, avverrà lungo il tragitto! Gli esperti di Sacra Scrittura ci ricordano sempre che i miracoli di Gesù avvengono grazie alla fede e non sono mai usati per suscitarla, eppure questo gruppo di poveri uomini – segnati da una malattia dolorosissima e dall’ostracismo sociale – sono chiamati a fare un passo in più nel loro itinerario di sequela: riconoscere che il miracolo non è il fine, ma il mezzo, cioè lo strumento per giungere ad un rapporto di totale adesione a Cristo, rapporto che parte proprio dalla riconoscenza per il dono della salute fisica. Attraverso questo miracolo – così come tutti i miracoli che compie – Cristo vuol dire che come può guarire il corpo dalla malattia può altrettanto salvare il cuore dal peccato: ne ha il potere e il desiderio! Il Samaritano, l’unico che torna a ringraziare per il prodigio di cui ha goduto, ha compreso che Gesù può offrirgli qualcosa di più della guarigione delle sue membra sofferenti. Come giustamente sottolinea Silvano Fausti: “La salvezza infatti non è guarire dalla lebbra, ma incontrare chi ci ha guarito… La sete non si placa con un bicchiere d’acqua, bisogna trovare la sorgente… Solo il rapporto con lui ci salva: i suoi doni sono semplici mezzi per metterci in comunione con lui”.

Il Samaritano, pur essendo un eretico, uno che vive una fede spuria, torna da Cristo, si butta in ginocchio davanti a lui e lo ringrazia per questo sguardo misericordioso verso la sua povera esistenza! Il Samaritano fa “Eucaristia”, cioè celebra la salvezza che solo Dio può donargli. Egli si consegna a Gesù perché lui solo può dare significato, colore e spessore alla sua esistenza!

Quel gesto di umiltà, di riconoscenza e di riconoscimento della divinità di Gesù diventa il vero momento di svolta della vita del Samaritano: invitandolo ad alzarsi è come se il Maestro lo facesse risorgere a vita nuova: non solo le sue mani e i suoi piedi sono sanati, ma anche e soprattutto il suo cuore. E Cristo non solo lo rialza, ma lo manda, lo invia. Verso dove? È bello pensare verso quei suoi nove compagni di sventura che si sono accontentati di essere stati guariti da Gesù. Che vada ad annunciare a loro e a tutti che lui è stato anche salvato!

 

Claudio Rasoli


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