La folla sceglie sempre Barabba finchè non diventa popolo
Entriamo nel vivo della Settimana Santa con la Domenica delle Palme tanto cara alla pietà popolare per quell’ulivo donato che è simbolo di pace, di riconciliazione, di benedizione. Eppure ai più attenti osservatori non sfuggirà l’atteggiamento altalenante della folla di Gerusalemme che prima accoglie festante il Maestro di Nazareth, come accoglierebbe il Messia venuto a liberare Israele dall’oppressione del pagano e solo dopo qualche giorno urla il suo terribile “Crucifige” dinanzi ad un esterrefatto Pilato che, nonostante la sua ignavia, cerca di salvare quell’uomo tanto mite quanto misterioso.
Qualche anno fa, in occasione della lettura della Costituzione Italiana, l’eclettico Roberto Benigni affermò: “I nemici della Costituzione sono l’indifferenza alla politica che è amore per la vita, e il non voto. Non ti tirare fuori, se ti tiri fuori è terribile, dai il potere alla folla che sceglie sempre Barabba”.
Ad una lettura superficiale questa provocazione può sembrare quasi una contraddizione: come non si può dare il potere alla “folla”? Ogni democrazia moderna dovrebbe muoversi sulla base di scelte e orientamenti della maggioranza della società. Pilato, seguendo una consuetudine di quel tempo, lascia alla folla la decisione di salvare dalla pena capitale Gesù, il Rabbì mansueto che predica l’amore, o Barabba, il “brigante” secondo l’evangelista Giovanni o il sedizioso omicida secondo gli altri sinottici.
I giudei, sobillati e prezzolati dai sommi sacerdoti, non ha dubbi nel mandare a morte Cristo e lasciare in libertà quel malfattore rozzo e violento che certamente incuteva timore e, in qualcuno, perfino ammirazione.
È giusto dunque consegnare il potere alla “folla”? Qualcuno, ancora oggi, auspicherebbe la gestione del potere solo da parte dei “migliori”, da persone culturalmente preparate, capaci di discernere i segni dei tempi e di intervenire in maniera adeguata. La massa non sarebbe in grado di prendere delle decisioni giuste perché poco informata e non affatto preparata. C’è una sinistra radical chic che vede con disprezzo le folle che votano a destra perché condizionate dai media e da leader forti e autoritari e c’è una destra che ancora usa lo spauracchio delle masse proletarie che seguono senza fiatare i loro capi trinariciuti. L’importante è denigrare e dipingere gli avversari come dei sobillatori che vogliono asservire e condizionare le persone.
A complicare sempre di più la situazione è anche il repentino cambiamento del panorama comunicativo. Se un tempo i media erano esigui (radio, televisione, giornali) ma sostanzialmente verificabili e non alla portata di tutti, oggi, invece, sono numerosi, diversificati, pervasivi, incontrollabili e in mano a tutti.
Le news e i dati che giungono alle persone attraverso internet e i suoi vari canali (siti di informazione, blog, social network, mail) sono così tanti che è impossibile riuscire a verificarli, a interpretarli, a codificarli. C’è un bombardamento di notizie che invece di permettere alle persone un giudizio chiaro e preciso crea solo confusione e impedisce di giungere alla verità. Ammesso che si voglia giungere alla verità o semplicemente essere confortati nelle proprie convinzioni.
Anzitutto si sta perdendo un anello fondamentale nella comunicazione che è la “mediazione” del giornalista il quale, se deontologicamente onesto, si pone al servizio del lettore e compie un’azione di interpretazione, di discernimento, soprattutto di verifica scrupolosa delle fonti, così da permettere un approccio il più veritiero possibile alla realtà. Il giornalista è chiamato a collegare i fatti tra loro, ad approfondire i temi, a smascherare gli imbrogli, in poco parole, ad aiutare il lettore a ragionare non con la pancia, ma con la testa!
Il lettore o l’internauta di fronte ad una mole esagerata di notizie che gli arrivano da ogni parte non ha il tempo di verificare le fonti, di interpretare gli avvenimenti, di dipanare matasse complicate e spesso si lascia irretire da chi grida più forte, da chi spara il titolo più aggressivo, da chi prima pubblica la notizia. La rete, senza un “medium” qualificato, onesto e credibile, diventa come le antiche arene romane nelle quali scaraventare le vittime, a volte innocenti, per umiliarle e sbranarle attraverso giudizi barbari, violenti e volgari.
La folla cerca sempre un capro espiatorio e la modalità per scaricare la propria rabbia, la propria violenza, la propria sete di sangue. Un tempo c’erano gli spettatori che aizzavano i gladiatori a uccidersi tra loro, oggi ci sono i “leoni da tastiera” che - prigionieri di una comunicazione inquinata e iperveloce che fomenta le emozioni a discapito della ragione - condannano senza appello i protagonisti delle vicende politiche o di cronaca.
Il disprezzo di Benigni per la folla che sceglie sempre il più forte, il più sprezzante, il più arrogante, il più presuntuoso, non è disprezzo della democrazia, ma di una massa informe, accomunata da nessun ideale che non sia la disistima da chi la pensa diversamente, la rabbia fine a se stessa per un sistema che certamente ha delle falle e va migliorato, l’insofferenza per quell’iter democratico che può essere lungo e tortuoso, ma che garantisce il rispetto di tutti, il rifiuto del confronto pacato e costruttivo, la rivendicazione solo dei propri diritti avulsi da ogni dovere. La folla è un composto di individui che non ha nulla in comune se non la ribellione che distrugge, l’indifferenza al bene comune che degrada la società, il rifiuto di ogni impegno serio e duratura che avvilisce ogni relazione, l’accoglienza superficiale e acritica di un flusso sconsiderato di notizie e informazioni. La folla si nutre di complottismo, di sospetto, di dietrologia, di individualismo esasperato.
La soluzione perché non venga sempre scelto Barabba è che questa folla si trasformi in popolo. Israele diviene realmente popolo solo quando accoglie la legge che Dio ha dato a Mosè sul monte Sinai. Si diventa popolo quando si inizia a condividere delle regole che, lungi dall’essere oppressive e incomprensibili, promuovono il bene comune, difendono il debole e l’indigente, permettono che tutti abbiano le stesse possibilità di crescere, prosperare, realizzarsi. Si diventa popolo quando il bene comune diventa bene di tutti, quando le opinioni sono accolte e ascoltate anche se appartengono ad una minoranza, quando non si condanna mai sulla base di poche e scarne notizie, quando si ricerca la verità sulle cose e sulle persone con rigore e caparbietà, quando tutti possono avere accesso all’istruzione e al sapere, quando la politica è assunta a passione (Paolo VI la definì sapientemente “la più alta forma di carità”) e non a interesse personale, quando anche al carnefice più spietato è garantito il rispetto e un equo processo.
Si diventa popolo quando ogni suo membro è considerato come essenziale, è rispettato perché unico, è amato perché irripetibile. Forse a quel punto si libererà Gesù e si condannerà Barabba.
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commenti
Francesco Capelletti
29 marzo 2021 10:45
Grazie per queste parole che sottoscrivo pienamente.