La settimana dell'arte, tra arte per tutti e arte d'élite
Si va a concludere la settimana dell’arte contemporanea legata alla fiera MI-ART, una delle più importanti d'Italia e che è tornata quasi a pieno regime dopo i due disastrosi anni di pandemia, e in certi casi con una energia e una vitalità inattese. La settimana, e le varie reazioni che ne accompagnano gli eventi, mi hanno fatto riflettere sul fatto che da tempo secondo me sì è instaurato un rapporto molto confuso, un po' manicheo e un po' ignorante, tra l’arte contemporanea e l’arte più classica.
Si potrebbe dissertare per ore sul termine “classico”, ma diciamo che io intendo in questo caso per brevità l’arte greco-romana, che è la nostra madre, è l’arte che va dal ‘200 al ‘500, che è indubbiamente il nostro vertice assoluto.
Quest’arte è prevalentemente rintanata nei musei, e viene ormai da decenni trattata come se fosse un animale in via di estinzione: misure rigidissime di sicurezza, teche infrangibili, illuminazioni mininvasive, accessi contingentati, allarmi volumetrici e perimetrali, prenotazioni faticosissime per accedere, esposizioni periodiche che diventano delle ritualità bizantine… Insomma esattamente tutto il contrario di come la loro fruizione era stata concepita, e cioè nelle piazze o nelle chiese per tutti, oppure per le pareti dei ricchi committenti e dei loro ospiti che davanti a quelle opere banchettavano o si divertivano, e di sicuro non stavano in un invasato rispetto misto di terrore e ottundimento (se non di noia a volte), come invece avviene oggi a noi nei musei. Passavo dalla Pinacoteca di Brera qualche giorno fa e non ho potuto visitarla perché la prenotazione è obbligatoria, mi ha detto perentorio un guardiano…al caffè se vuole può accedere liberamente: e che ci faccio col caffè gli ho risposto io? Se poi vi venisse in mente di visitare il Cenacolo di Leonardo abbandonate ogni speranza o voi che volete entrare: le prenotazioni sono inflazionatissime e il sistema on line vi mette a disposizione pochi minuti per prenotare e pagare, con tanto di orologio che fa il conto alla rovescia, una roba da sudare freddo come se si fosse all’esame della patente. In generale si tende sempre più a voler creare attorno a queste opere una sorta di cordone terrorifico di tutela, che a mio avviso non giova ed ha raggiunto livelli eccessivi.
E pensare che negli anni ’20, reduci dal Biennio Rosso, le carte d’archivio ci raccontano che nelle preoccupazioni degli amministratori di Palazzo Reale a Milano c’era la presenza della luce la sera, per permettere ai lavoratori di accedere all’arte dopo il lavoro… Chissà se mai un giorno rivedremo i musei, oltre che gratis, anche aperti la sera almeno nei week end… Credo si sia capito, ma mi son già espresso molte volte in questo senso, che non condivido questa concezione rigidamente conservativo-espositiva del bene culturale, benchè ne comprenda le preoccupazioni sottostanti. Ma si sappia, e bene, che questa specie di maniacale ipertutela del bene culturale è tutta del nostro tempo: queste opere rappresentano forse il 10% di quanto è stato realizzato in millenni di arte, e nella stragrande maggioranza dei casi sono state abbandonate a loro stesse per secoli, compresi il Cenacolo e la Cappella Sistina, nella più gretta indifferenza. Certo questo timore protettivo è in gran parte dovuto al riverbero della devastante deflagrazione che la seconda Guerra Mondiale ha provocato ai patrimoni di decine di nazioni, ma io credo anche che la nostra società contemporanea stia esaurendo la propulsione creativa: quando si ha troppa paura di perdere il passato è quasi sempre perché non si sta costruendo un glorioso presente. Basti pensare che quando le grandi famiglie papaline eressero la Roma barocca, non ebbero remore a depredare ciò che rimaneva delle antiche vestigia della capitale imperiale: “quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini” diceva una pasquinata attribuita a Mons. Castelli.
Resta però il fatto che questa arte così “blindata”, subisce numerosi paradossi: benché rappresenti l’alfabeto universale dell’arte occidentale, e quindi sia indispensabile condividerla massimamente per far capire anche l’arte contemporanea, viene trattata come un arte d’elite, che però viene poco spiegata e finisce per essere visitata quasi sempre da turisti che hanno tempo da riempire e che finiscono per capirne poco o nulla. E questo è un altro dei paradossi che viviamo: quasi tutti, eccetto gli addetti ai lavori, rimangono perplessi se non divertiti dall’arte contemporanea, non capendola e ritenendola spesso una sorta di presa per i fondelli ( impressione che per la verità hanno anche gli stessi esperti a volte) ma pensando invece di capire quasi naturalmente l’arte classica “d’elite”…
Eppure, quella stessa arte contemporanea che tanto ci pare incomprensibile, a volte perfino brutta o ridicola, ci è molto più vicina di quell’arte classica che invece diamo per scontato di avere capito. Picasso è per noi in verità molto più facile da capire di Raffaello o dell’arte greca, che invece ci paiono così naturalmente “facili”, perché ci è più vicino, ha vissuto il nostro tempo, con i suoi valori, i suoi problemi, le sue caratteristiche e i suoi drammi, dalla modernità alla guerra dal capitalismo alla tecnologia: eppure, la statua di un uomo togato con un cavallo o un ritratto di Madonna con Bambino si pensa di capirli subito molto più di una installazione di arte contemporanea. In realtà noi ignoriamo centinaia di informazioni su simbolismi, uso dei colori, scelta dei gesti e perfino delle piante e fiori che vediamo nell’arte più classica, per cui non ne comprendiamo che la banale apparenza, cosa che in realtà ci accade anche per l’arte contemporanea, solo che lì tutto ci sembra oscuro proprio perché non “classico”. Caravaggio ad esempio, che per noi è classicissimo, non piaceva a moltissimi suoi contemporanei e fu ignorato per secoli anche dai posteri.
Non parliamo poi di Picasso, un genio senza eguali, che è stato oggetto perfino di ridicolizzazioni nei cartoni animati, e che forse ancora oggi viene molto banalizzato, nonostante l’immenso successo avuto in vita.
L’arte contemporanea ha dovuto subire e poi adattarsi o reagire all’arrivo della fotografia, del cinema, della TV, alla fine dell’epoca dei committenti e quindi dei soggetti tipicamente usati per secoli e perciò chiari a tutti per abitudine visiva e culturale, ed ha iniziato ad esplorare nuovi mondi, primo fra tutti quello della interpretazione, della soggettività, della introspezione dell’artista, spesso fino a livelli molto discutibili di autorefenzialita’.
Ma è e rimane la nostra arte, l’arte del nostro tempo, della nostra società, a cui va riconosciuta certamente la contemporaneità e quantomeno la sperimentalità, con artisti che non hanno più le botteghe dove apprendere come un tempo, né committenti che li mettano in rapporto con soggetti ben precisi. Ma lo sforzo creativo, la sensibilità interpretativa, perfino la ricerca di tecniche nuove e sperimentali non è da meno di quella degli artisti del passato.
E tra l’altro, l’arte super contemporanea, soprattutto quella dei giovani artisti, è avvicinabile senza riti, visitabile gratuitamente e acquistabile con pochi soldi, non è soggetta a rigide prenotazioni né a sterili rapporti di distanza: si può perfino provare la splendida ebbrezza di toccare l'opera. E’ molto più vicina e avvicinabile di quanto immaginiamo, nelle gallerie private, negli studi degli artisti, alle fiere.
Ridacchiarne con sufficienza e banalizzarla (benchè a volte essa dia adito) solo perché non si ha la pazienza di entrarci in rapporto è un grandissimo errore. Ogni rapporto richiede un po' di pazienza, tempo e dedizione.
In ogni città italiana ci sono giovani artisti che si cimentano, che sperimentano, che raccontano con l’arte quello che sta accadendo qui e ora alla nostra società, che a volte è niente perché forse niente c’è da raccontare… Avvicinarli è una attività che farebbe bene a noi e a loro, certamente più che perder tempo a prenotare visite su un computer.
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
(la foto del professor Martelli è di Irina Mattioli)
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