Le malefatte in montagna e la farina del diavolo
“La farina del diavolo prima o poi va in crusca”. Si diceva un tempo. E tuttora attendo di cogliere al riguardo qualche rassicurante indizio. Scetticismo rinverdito da spettacoli in cui ci si imbatte muovendosi in quello straordinario museo naturale che è il parco nazionale Adamello Brenta.
Stiamo parlando di uno fra i tanti, delicatissimi ambienti alpini che racchiudono gran parte dei fattori da cui dipende non solo la qualità della nostra vita ma la nostra stessa sopravvivenza : riserve idriche di nevai e ghiacciai, aree boschive in grado di mitigare le calure estive, di custodire microclimi sufficientemente umidi per favorire preziose piogge, di imbrigliare e stabilizzare i crinali contrastando smottamenti e frane. Lo so, parlare d’ambiente di questi tempi è tutt’altro che originale. La grande domanda, prediletta dagli indaffarati fabbricanti di eco ansia, è sempre dietro l’angolo: le cose cambiano per colpa dell’uomo o per gli autonomi corsi e ricorsi che governano da milioni di anni l’ignoto respiro del pianeta? Chissà. Refrattaria a qualsiasi psicodramma collettivo, specie se in odore di mega business planetario, mi atterrò semplicemente a quel che direttamente si vede da anni nel distretto alpino compreso fra le provincie di Brescia e Trento: dalle rocce metalliche dell’Adamello alle rosate guglie coralline del Brenta. Quali che siano le cause dei sempre più frequenti eventi estremi, su una cosa possiamo convenire: l’entità dei danni che producono è direttamente proporzionale alla fragilità delle zone su cui si abbattono.
Da decenni è in corso la litania dei buoni propositi circa le molteplici situazioni a rischio che fanno del nostro Paese uno spericolato compromesso fra bellezza e precarietà. Ma il rapporto fra parole e fatti resta largamente insoddisfacente. Il vecchio andazzo prevale, insieme ai meccanismi decisionali e operativi che, come nel caso alpino cui mi riferisco, consentono a blindatissime cordate di procedere pressoché indisturbate in una prassi padronale e predatoria che, in caso di mano completamente libera, ridurrebbe aree di elevatissimo valore naturalistico e strategico a privato patrimonio da tosare, mungere, macellare e cedere al miglior offerente. Alla faccia di leggi, vincoli e decreti. Le antenne dei vecchi e nuovi predatori ovviamente sentono che in materia ambientale si sta alzando la guardia dell’attenzione collettiva, coi rischi che ne conseguono. Ma l’astuzia del diavolo è sempre un passo più avanti. Pur di continuare a macinare profitti non esitano a modificare non i comportamenti ma il messaggio che ne accompagna il prodotto finale.
Trucidi palazzinari si travestono da candide Heidi. Un esempio fra i tanti: uscendo da una Ponte di Legno stravolta da selvaggia cementificazione e salendo in direzione Gavia-Tonale, capita di imbattersi nel solito malinconico scenario. Versante boschivo sventrato dalle ruspe, abeti abbattuti e ammassati a lato come esanimi vittime di un’abietta imboscata, scavi per gli allacciamenti necessari all’ennesimo villaggio turistico in cui si pagheranno a peso d’oro cosette formato loculo ma con vista mozzafiato. Quale la novità? Su gru e impalcature campeggia un gigantesco striscione promozionale, ultima frontiera del riciclaggio green prudenzialmente adottato: Progresso sì, inquinamento no. Come se l’utilizzo di qualche materiale ecosostenibile accuratamente esibito a uso e consumo dei soliti allocchi rendesse accettabile il nuovo giro di vite di una cementificazione che assedia ormai le pendici dell’Adamello col suo carico di catrame, cavi, traffico, plastiche, inquinamento e irreparabile modifica del paesaggio.
Il vero progresso sarebbe ovviamente investire sull’edilizia conservativa che non divora nuove aree e ripristina autentici contesti montani senza le stucchevoli smancerie del finto rustico. Ma quanto minore in quel caso sarebbe la torta da spartire fra politici, amministratori, uffici tecnici di vario livello, agenzie immobiliari… per limitarsi ai soliti noti sorvolando sul resto dei commensali. Tuttavia un’autentica botte di ferro continua a custodire affaroni e affarucci e tale resterà finché la tutela del patrimonio ambientale marcerà lungo mondi paralleli che, in quanto tali, non corrono serio rischio di incontrarsi e scontrarsi. Da un lato, i documentari strappalacrime su questo o quel ghiacciaio in via di scioglimento, l’allarme che si consuma nei salotti televisivi che accompagnano le nostre serate, che si pasce delle narcisistiche prodezze di questa o quella divetta dello star system ambientalista, sia Greta o Carola o un’ignota commediante che si produce in singhiozzanti performance di eco ansia a beneficio di telecamere e ministri in carica. Prima o poi passeranno tutte in cassa, e sappiamo quale, a riscuotere i dividendi politici dell’impresa. Dall’altro c’è il pianeta della realtà che nelle sue specifiche declinazioni territoriali e nei suoi quotidiani meccanismi procedurali dispone di sconcertante capacità di autoconservazione. Camaleonte dalle mille vite, in fondo cosa rischia? Tutt’al più qualche schiaffetto, qualche infuocato consiglio comunale dopo di che il muro di gomma delle logiche di continuità ancora una volta la spunterà e farà franca.
Mai visti in giro consistenti e significativi segnali reattivi da parte delle comunità locali, che di fatto accondiscendono. Possibile che nativi, pur legati da evidente affezione al proprio territorio, non s’accorgano delle violazioni inflitte al corpo vivo della valle? S’accorgono, eccome. E dunque la vera domanda da porre è un’altra: potrebbero fare altrimenti posto che la rituale formula ‘promozione del territorio’ impugnata ormai ad ogni incremento della cementificazione è leva realisticamente irresistibile per chi su un territorio deve pur sopravvivere e campare? E purtroppo per le dissennate, banali e distruttive spinte interne al nostro ‘modello di sviluppo’ promuovere un territorio significa ormai dare alloggi a pochi metri dagli impianti di risalita e discoteche e fast food e centri commerciali e notti bianche e, perché no, elicotteri per portare qualche agiato imbecille a un passo dalla vetta: farà a piedi gli ultimi cento metri ma, arrivato, non si godrà lo spettacolo. Sarà troppo impegnato a farsi un selfie. E’ questa l’unica strada percorribile per la promozione di un territorio? Non tutti i distretti alpini la seguono, il che prova che le alternative esistono. Ma, per avviare qualche significativa inversione di tendenza, quanti notabilati locali occorrerebbe scardinare e che ciclopico lavoro su una mentalità collettiva che, riformattata da anni di bombardamento mediatico, ha ormai fatto propri certi stili di vita e conseguenti esigenze e attese
. Chi è senza coda di paglia scagli la prima pietra. A quante quote di benessere, sicurezze e comodità saremmo personalmente disposti a rinunciare per difendere la sopravvivenza di un bosco, l’integrità di un torrente o il silenzio di una valle? Il punto è questo. Il resto è chiacchiera.
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