Lo Stato è laico, non laicista
La rovente polemica innescata dal ddl Zan ha dunque rotto il longevo incantesimo. Papa Francesco non è più il Mentore spirituale di ex comunisti, massoni e liberi pensatori genuflessi per anni al cospetto di un Pontefice provvidenzialmente allineato ai principali capitoli del loro Credo. Ma non a tutti, come stiamo vedendo. I fatti di questi giorni ci ricordano che la Chiesa resta sua maestà la Chiesa, custode attentissima delle garanzie giuridicamente pattuite e di una missione candidata, pur fra alti e bassi della storia, a cavalcare secoli e millenni sopravvivendo a ideologie, partiti, piccoli uomini e modesti opportunismi.
La delicata situazione attuale si presta a varie riflessioni. Non ultima quella relativa alla mutazione culturale del soggetto politico, l’ex Pci, oggi Pd, in cui è maturato il disegno di legge. Nella parabola di una forza storicamente nata come partito dei lavoratori e in seguito riciclata in partito d’élite e di diritti civili, sta la risposta a molte domande. E, soprattutto, la ragione per cui gli attuali richiami di molta sinistra a una visione solidale della società in cui l’io non prevalga sul noi appaiono non solo contraddittori rispetto alla rotta effettiva del partito ma, talvolta, autogol ai limiti del non senso. Curioso che proprio la sinistra rimpianga il patrimonio etico dello smarrito bene comune come se fosse osservatrice di passaggio e non azionista di maggioranza di scelte che rischiano di ridurre la società a una sommatoria di monadi murate nella corazza, ipergarantita e sempre più inviolabile, dei cosiddetti diritti civili individuali.
Ma facciamo un passo indietro. Era il lontano 1970 quando la legge Baslini-Fortuna (socialisti e radicali) introdusse il divorzio. Faccenda su cui il Pci di allora si mosse tiepidamente e con estrema prudenza. D’accordo, le donne votavano e non era il caso di indispettirle. Ma c’era ben altro: l’anima profonda di un partito ancora moralmente erede di Guareschi e di Peppone, il sindaco di Brescello rosso fino al midollo ma custode -quanto a visione della famiglia e dei valori interpersonali- di quell’Italia rurale e devota in cui ogni sentore di liberazione sessuale era di là da venire. Il seguito lo conosciamo e con esso la natura delle ‘battaglie di civiltà’ cavalcate dalla sinistra. Battaglie ovviamente legittime e a volte condivisibili ma, guarda caso, tutte rigorosamente convergenti nell’indebolire sia materialmente che moralmente, cioè nei decisivi territori dell’immaginario collettivo, la famiglia tradizionale. Sì, quella roba lì con una mamma e un papà che si tirano il collo per mantenere ed educare i figli generati e magari trovano pure tempo e risorse per tenersi vicini i vecchi di casa: situazione così arcaica e poco intrigante che nessuna fiction politicamente corretta ne farebbe materia di racconto. Ma è pur vero che ripetute sentenze della Corte costituzionale da anni insistono sulla necessaria compatibilità fra la libertà individuale di scegliersi un’identità di genere e l’altrettanto necessaria tutela delle reti di relazioni in cui l’interessato è inserito. Perché, piaccia o meno, la condizione umana è questa: nascere e vivere in un’inevadibile rete sociale di affetti, esigenze, attese e differenti sensibilità entro cui va cercato un accettabile punto di equilibrio. Se un padre di famiglia cinquantenne si scopre più donna che uomo nessuno deve negargli umana comprensione e doveroso rispetto. Ma la bilancia del giudizio ha due piatti: su uno il diritto a una libera realizzazione personale, sull’altro il diritto degli altri, magari figli minori, a un equilibrato sviluppo psicologico. O vogliamo ignorare che il diffuso smarrimento di troppi adolescenti è anche l’esito di una generazione senza Padri né Maestri, abbandonata a quel pauroso vuoto familiare ed educativo che forse in una scala di emergenze sociali e autentiche ‘battaglie di civiltà’ dovrebbe stare sopra e venire prima di tutto il resto?
Ma ormai il carrozzone di un’eccezionale mobilitazione mediatica è partito. Certo. la qualità delle argomentazioni non è eccellente se lo sponsor più visualizzato del ddl Zan è un certo Fedez cui gioverebbe qualche tatuaggio in meno e qualche lettura storica in più a giudicare dalla strafottente superficialità con cui blatera di cose che culturalmente ignora. Ma la Chiesa sa perfettamente come difendersi e non gliene mancano i mezzi. Con ragione il premier Draghi ha ribadito la centralità del Parlamento e la natura laica e non confessionale dello Stato. Appunto: laica. Non laicista. Il punto nevralgico sta qui e trascende la questione confessionale e concordataria per investire il tema, più generale e squisitamente laico, della libertà d’opinione. Il timore, avanzato non solo dalla Chiesa, dal centrodestra ma da consistenti settori della cultura libertaria, è che la semplice manifestazione di un dissenso rispetto ai contenuti del ddl Zan possa comportare conseguenze penali incorrendo nel reato d’opinione. Il decreto contiene un preoccupante risvolto: si esige di fatto che chi dissente taccia e assuma un atteggiamento moralmente avalutativo. Ma può una legge dello Stato imporre la passività agnostica rispetto a una questione che tocca i più delicati aspetti morali della vita personale e collettiva? Non la definiremmo una pratica particolarmente liberale. Si vede che gli scavezzacollo del libero pensiero si sono trasferiti sul lato destro del quadrante politico.
Qualora il ddl diventi legge la sua interpretazione sarà inevitabilmente affidata alla discrezionalità del giudice. Mettiamo il caso: una toga, di cui elegantemente tacerò il colore, ravvisa nelle cose che sto scrivendo germi di omofobia. Cosa succede? Entro in una grana giudiziaria di durata potenzialmente infinita. Ovviamente mi difendo. E come farlo se non rispedendo al mittente l’accusa di reato d’opinione che infondatamente imputa a me? Eccola qui la classica premessa perché nuovi zelanti legislatori si mettano all’opera su un decreto aggiuntivo che preveda il reato d’opinione a carico del giudice che infondatamente accusa qualcuno di reato d’opinione.
Il paradosso comico -ma anche tragico- della situazione è evidente. Volendo normare, sorvegliare e sanzionare ogni alito di vita siamo e restiamo gli Azzeccagarbugli italici eternamente ingolfati in una cancerosa e labirintica proliferazione normativa. Il tentacolare concetto di reato d’opinione, a seconda di come si impugna, può essere infatti gassoso fino all’inconsistenza o pesante come un macigno. Anche qui l’ex Pci ha memoria corta, ma possiamo aiutarlo. Anni ’70, processo Sofri. Il direttore di ‘Lotta Continua’ aveva seminato tale campagna di odio nei confronti del commissario Calabresi da essere ritenuto ‘mandante morale’ dell’omicidio (1972) e come tale condannato. E’ imbarazzante che, più delle parole del Pci del tempo, se ne ricordino i silenzi e le tenaci reticenze. Nemmeno di fronte alla pistola metaforicamente fumante di una parossistica semina di odio tutti ammisero la oggettiva entità morale di un reato d’opinione degenerato in forza motrice di un delitto. E’ quantomeno curioso che oggi gli eredi di quel partito possano vedere in semplici manifestazioni di dissenso rispetto al modello di famiglia proposto dal ddl Zan la pistola fumante di un reato d’opinione penalmente perseguibile. Evidentemente i tempi cambiano, cambiano gli uomini e le alterne convenienze su cui si tara l’elastica nozione di ‘reato d’opinione’. Certo è che il ‘politicamente corretto’ avanza e ci rimodella con la forza di uno schiacciasassi.
Ma facciamocelo raccontare da un insospettabile: Federico Rampini, progressista doc. Mai ricevuto un rosario da Salvini. Mai scritto su ‘La Padania’ o ‘Il Populista’. Corrispondente dagli Stati Uniti di ‘Repubblica’ si suppone sappia quel che dice e quel che scrive riguardo al gigantesco business gravitante intorno alla macchina acchiappa soldi del ‘politicamente corretto’: ‘L’antirazzismo si fa establishment quando nelle multinazionali la parola d’ordine è cooptare neri nei consigli d’amministrazione e l’Academy Award di Hollywood stabilisce nuove regole per cui gli Oscar vanno assegnati con un occhio di favore verso film ‘inclusivi’ (meglio se trattano del razzismo o del sessismo e possibilmente hanno registe e attrici di colore). Fiorisce un nuovo business, le società di consulenza si fanno strapagare per insegnare alle multinazionali e ai banchieri di Wall Street il nuovo ethos dell’antirazzismo. Chi non si allinea con l’avanguardia intransigente del movimento subisce linciaggi mediatici o perde il posto di lavoro’.
Come italiani mai finiremo di rallegrarci d’avere a suo tempo importato dall’America il Piano Marshall. Ben altro invece ci suggerisce la latenza illiberale di un ‘pensiero unico’ che molto volentieri lasciamo oltreoceano a totale disposizione e beneficio del dorato e ipocrita jet set hollywoodiano.
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