6 aprile 2021

Manca un progetto e Cremona è un territorio sotto schiaffo

Non c’è dubbio: Cremona è da tempo un territorio sotto schiaffo. La recente perdita della Mostra del bovino da latte rientra in fondo in una lunga serie di sonore batoste che ci hanno sottratto quote di potere decisionale, risorse, potenzialità evolutive, prestigio d’immagine presente e futura. Gol subiti o autogol sprovvedutamente messi a segno? Da un bel po’ in effetti non si vede gioco di squadra degno di questo nome, capitano che regga i fili con la dovuta lucidità strategica e a qualcuno andrebbe forse chiarito che i punti di vantaggio si ottengono tirando la palla nella porta avversaria e non nella propria.
Che dire, per esempio, della stravagante idea che in molti settori, a cominciare dai media locali, la competenza giornalistica per parlare di Cremona vada cercata sui mercati altrui, con atti di vassallaggio spontaneo incassati con curiosa frequenza dai vicini bresciani? Ma tutto scivola via in sordina senza vere fiammate di orgoglio locale e si perde nelle pieghe di una comunità che pare obbedire per vocazione spontanea alla regola del silenzio. Lungo la sonnolenta riva del Po trionfa, come direbbero i gesuiti, ‘la virtù del libero ubbidire’. In realtà il vizio è nel manico: manca un convincente progetto sulla città proiettabile almeno nel medio periodo. Sta lì il carburante che consente di ingaggiare la battaglia per la rinascita a testa bassa col concorso di tutte le componenti del territorio, superando il miope individualismo che rende più digeribile la vittoria di un avversario esterno del pur modesto vantaggio del vicino di banco, mestiere o cordata. Siamo tuttora in cerca d’una identità forte. Certo, ci sono i violini e le audizioni di Amati e Stradivari in condizioni acusticamente perfette. Già. Ma col ‘vissi d’arte e d’amore’ un pezzo di città campa e i più tirano la cinghia. Il presente stride paradossalmente col passato. Nelle sue stagioni migliori Cremona ha regalato al Paese protagonisti della vita politica, culturale, artistica ed ecclesiastica e ha fatto del Grande Fiume preziosa risorsa di vitalità commerciale e dinamismo sociale. E quando si vive a finestre aperte l’aria gira meglio e con essa i cervelli. La collocazione geografica non è mutata ma nel consumarsi del transito dalla dominante economica commerciale a quella agraria il favore degli astri è mutato. Nessuno vuole stilare sciocche pagelle ma è un fatto che dal secondo dopoguerra i destini cremonesi sono stati nelle mani pressoché esclusive di un ceto agrario che non ha sempre brillato per lungimiranza: troppi i ‘no’ pronunciati per miope immobilismo. Un esempio fra i tanti: l’isolamento ferroviario che tuttora penalizza e balcanizza Cremona. Dopo di che ci è toccato il destino che di norma tocca ai troppo schizzinosi: campare di scarti. Vedi vicenda Amoco-Tamoil e il seguito di insediamenti non propriamente salutari che hanno costretto Cremona a sperimentare sulla sua pelle, ben prima che una pandemia lo scatenasse, il conflitto fra salute ed economia. Va aggiunto che il territorio patisce una doppia perifericità: dal punto di vista di Roma siamo una modesta entità alla periferia dell’impero, da quello del governo regionale una città politicamente non allineata agli equilibri del Pirellone e geograficamente già quasi-Emilia. Figli di un dio minore, più che mai bisognosi di patroni che con forza ci proteggano nelle stanze che contano, innegabilmente abbiamo un problema di classi dirigenti all’altezza delle sfide. Ma attenzione, l’argomento è circolare. La leadership locale non viene da Marte, è l’espressione del territorio, soggetta a tutti i limiti invalidanti di una comunità che non cresce più e da decenni presta a tutti, dalla vicina Milano al più vasto mondo, cervelli e professionalità formate. E intanto ripiega sulla città dormitorio. Se la giri in un giorno feriale hai la plastica rappresentazione del problema. L’italiano è lingua morta, incroci badanti, anziani rassegnati e stranieri disinteressati. Nel fine settimana c’è qualche timida ‘svolta antropologica’: i pendolari tornano, la borghesia cittadina ripopola il corso specie perché i cani di famiglia fra le cinque e le sei si vedono con gli amicucci. Il degrado di alcune zone, per esempio fra la stazione ferroviaria e il piazzale dei pullman, è impressionante: zombi in monopattino, ubriachi, teppisti. Davanti alla stazione c’è un bivacco permanente e Garibaldi, in effigie marmorea, è precipitato da eroe dei due mondi a vespasiano del terzo mondo. I cremonesi per lo più vedono, tacciono e passano oltre con una rassegnazione al degrado civilmente e moralmente colpevolissima, specie se mascherata da cristiana tolleranza.
Quando mai il Vangelo ha predicato l’ignavia? E qui non è questione di classi dirigenti ma di anemica virtù civica. In un quadro del genere, perché stupirsi di un centro storico avvolto nella bolla di un desolante silenzio o di saracinesche abbassate l’una dopo l’altra in un crescendo più epidemico del covid? La lacerazione del tessuto commerciale è tutt’uno con quella del tessuto sociale. Ma un tessuto lacerato non si rammenda con qualche punto a caso: urge una sequenza di interventi strategicamente mirati a rafforzare sia trama che ordito. Parliamone.


vittorianozanolli.it

 

Ada Ferrari


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