Maschile o femminile? Quando anche la grammatica entra in politica.
In questi giorni ha suscitato notevole interesse mediatico la scelta di una giovane ma fermissima amministratrice milanese di far cambiare la qualifica sulla targa del suo nuovo ufficio comunale da “Assessore” ad “Assessora”.
Anzitutto sgomberiamo il campo da un equivoco: il termine “assessore” è un maschile singolare, non esistendo il termine “assessoro”, e benché la “e” finale richiami il genere neutro di latina memoria, in italiano il neutro non esiste. Pertanto, la volontà di declinare al femminile il termine trova una sua motivazione e giustificazione.
La battaglia di genere sui sostantivi si è scatenata da tempo ed è andata di pari passo con la ben più ampia evoluzione del ruolo sociale della donna ma anche delle rivendicazioni di nuovi generi sessuali, ed è assolutamente interessante, benché in certi casi a volte grottesco, il fenomeno politico-linguistico a cui stiamo assistendo e che ha pochi precedenti nella storia: una legittimazione sociale che passa anche attraverso una pretesa grammaticale. E, aggiungerei, una incidentale fluidità grammaticale che va di pari passo ad una rivendicata fluidità sessuale.
Ogni lingua ha le sue regole, codificate nella grammatica: in italiano il maschile prevale sul femminile, lo si impara fin dalle elementari, ragion per cui si dice “ho mangiato un mela e un melograno buonissimi” e non buonissime. E le regole non si discutono.
Ciò detto, io mi fregio di essere amico di Angelo Stella, Accademico della Crusca, Professore emerito di Dialettologia e Storia della lingua italiana oltre che Presidente del Centro Studi Manzoniani, insomma un colosso della nostra lingua, con il quale ogni tanto mi diverto a dissertare, chiedendo il suo insindacabile giudizio su parole e modi di dire che in apparenza contraddicono la nostra grammatica ufficiale. E ogni volta egli, sornione e serafico, mi ripete la stessa imperitura frase: nelle lingue gli usi valgono le regole, anzi è dagli usi che nascono le regole. E sempre cito di lui, varesotto, un esempio: “in italiano si dice mi è piaciuto, ma nel mio dialetto si dice “àl ma piasù”, cioè mi ha piaciuto, è così è corretto dirlo in dialetto”.
Le lingue sono a tutti gli effetti delle convenzioni comunicative, non sono dei dogmi o delle evidenze scientifiche, e in quanto convenzionali sono soggette ai mutamenti che originano dai rapporti umani e dalle loro declinazioni sociali e culturali. Ma resta un fatto, che non si discute: se è l’uso che fa la lingua e le sue regole, occorre che affinché un termine, una espressione o declinazione vi entrino a pieno diritto devono essere usati correntemente dalla stragrande maggioranza della popolazione. Un esempio interessante in questo senso è l’espressione “a me mi”, che fin dalle elementari ognuno di noi pronuncia inevitabilmente, e che inevitabilmente ci viene corretta dalla maestra. Ebbene, l’espressione non è affatto sbagliata nemmeno secondo la grammatica, e di fatto viene regolarmente usata dalla maggioranza della popolazione. Però “suona” male: è cacofonica, è un’allitterazione che dà un senso di fastidio anche in chi la usa con la coscienza grammaticale del perfetto conoscitore, ed è finita pertanto nel mirino della grammatica di base.
Alcuni termini come assessora, sindaca, avvocata, etc… ci “suonano male” in massima parte perché non ne abbiamo l’abitudine uditiva, altri invece perché la lingua ha anch’essa la sua estetica indefinibile ma a volte ineludibile: non è un caso ad esempio che nessuna donna deputata al Parlamento usi il termine “onorevola”...
E siccome all’uso seguono le regole, sono nate nei secoli, per volontà dei governanti che nelle lingue hanno sempre visto un coagulante politico essenziale, numerose istituzioni che su quelle regole vigilano, a volte ammettendo a volte escludendo i nuovi usi linguistici dall’Olimpo della grammatica ufficiale. In Italia si chiama Accademia della Crusca, e una sua Presidente (o Presidentessa…) Nicoletta Maraschio, si era già espressa nel 2013 ammettendo il termine “assessora” come lecito e corretto assieme a molte altre nuove declinazioni al femminile di termini prima declinati solo al maschile.
Ma ahinoi, la stessa Accademia è anche incappata in un tranello mediatico che molti di voi ricorderanno, quando pochi anni fa un ragazzo usò in un tema il termine “petaloso” riferendosi a un fiore e causando un surreale dibattito mediatico che lo portò fino al Presidente Mattarella e al conseguente placet della Crusca: qualcuno di voi si è mai sognato di usare questo aggettivo? Credo proprio di no… Ecco un esempio in cui pur in assenza di un uso, chi vigila sulle regole si è piegato ad una novità assoluta nella storia: il potere di condizionamento mediatico, che non ha nulla a che vedere né con l’uso né con la grammatica, ma che riesce ad imporsi.
Invero, i tentativi di correggere la lingua per motivi politici non sono mai mancati nella storia, e l’Italia ha dei precedenti ben noti: durante il Ventennio vi fu una copiosa serie di “abolizioni” di termini francofoni e anglofoni, che arrivarono fino al ridicolo: mi è capitato di trovare in archivio un menù dell’epoca in cui al posto del francese Consommé (tiepido brodo di carne che si serve in terrine con due piccoli manici per aprire lo stomaco al pasto) si serviva letteralmente del “Consumato”, e al posto dell’anglofono “Lei” si imponeva l’uso dell’italico “Voi”. Per contro, accadde alla corte di Francia che per compiacere il Cardinale Mazzarino, all’apice del suo potere, i francesi arrivassero a italianizzare i propri cognomi: indimenticabile è il caso di Charles de Monchy Marchese di Hocquincourt, che si fece chiamare letteralmente, ignorandone evidentemente il significato italiano, “il Marchese di Hoquinculo”. Ma questi episodi sono del resto la dimostrazione che i cambiamenti grammaticali per imposizione finiscono per non lasciare traccia, se non nel ridicolo.
Ricordo molto bene che quando ero al liceo negli anni ‘90, l’indimenticabile (almeno per me) Don Carlo Mussi, insegnate di lettere di cultura sopraffina, ci leggeva ogni anno le nuove parole inserite dalla Crusca nell’uso comune, al suo leggere “cliccare” ci guardammo tutti straniti con il tipico ghigno strafottente degli adolescenti verso i vecchi che tentano di fare i moderni: nessuno di noi lo usava ancora, e pensate a come oggi quel termine appare addirittura sui siti ufficiali delle Amministrazioni pubbliche per scaricare dei formalissimi certificati... Un caso i cui la regola ha preceduto di gran lunga l’uso, che è ormai epidemico.
Rimane di fatto molto interessante che nell’epoca degli emoticons e della crittografia da smartphone che distrugge ogni regola grammaticale a colpi di messaggini via WhatsApp, si faccia proprio della grammatica terreno di confronto politico e di affermazione ideale e sociale.
All’uso diffuso e quotidiano l’ardua sentenza…
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
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commenti
Annamaria Menta
4 dicembre 2021 11:51
Da persona mediamente istruita non amo usare certi termini (come appunto "assessora") solo perchè, come viene detto nell'articolo, "suona male".
Preferisco anche essere definita "liutaio", riferito alla mia persona, piuttosto che "liutaia" (termine che non ho idea se esista o meno). Non mi sono mai posta il problema se ci fosse o meno una discriminazione nel termine. Il problema caso mai è la discriminazione reale, specie in certe zone geografiche, nei confronti dei liutai professionisti donne. Ma questa è un'altra storia...forse.
Martelli
4 dicembre 2021 13:43
Concordo
Dani
4 dicembre 2021 16:34
Interessantissimo soprattutto oggi che si usano tre parole di vocabolario e a volte neanche correttamente...sarebbe da leggere a scuola e da diffondere,comincerò io nell'ambito delle mie conoscenze...interessante e ben scritto come sempre👏
Martelli
4 dicembre 2021 18:39
La ringrazio moltissimo!