Mostri e assassini: quando gli archivi raccontano psicosi e delitti
L’Ucraina è tornata al centro delle cronache mondiali a causa di una improvvisa (e forse nemmeno tanto…) invasione da parte della Russia. Non accadeva dai tempi della Rivoluzione Arancione. C'è però un altro motivo, totalmente diverso, per cui la ricordo al centro dei nostri telegiornali: fu quando, da ragazzino, vidi arrestato Andrj Romanovic Cikatilo, meglio conosciuto come “il Mostro di Rostov”, dal nome della triste città dell’Ucraina sovietica in cui viveva ed aveva ucciso, stuprato e fatto a pezzi più di 50 persone, prevalentemente bambini e donne. Fu quasi certamente il più feroce assassino seriale della storia, e benché quello del “serial killer” sia un fenomeno decisamente statunitense, quella storia fece estremo scalpore anche per l’improbabile contrasto tra quelle inconcepibili atrocità e l’inscalfibile grigiore di quella terra così sconosciuta e al contempo anonima come un po' ci appariva allora tutta la costellazione dell’impero sovietico. Nell’ ex URSS non si parlò praticamente mai del Mostro perché lo si riteneva un tipico fenomeno della occidentale decadenza dei costumi, e forse non avevano tutti i torti, dato che anche noi in Italia abbiamo iniziato a conoscere queste terribili deviazioni della mente umana negli anni ’80 del nostro edonismo americano. Secondo alcuni sociologi, proprio l’omertà delle autorità sovietiche su quanto accadeva alle vittime consentì al Mostro di arrivare a mietere così tante vite, perché non si creò alcun panico o allarme nella popolazione. Noi italiani abbiamo sperimentato molti anni fa il panico e il terrore che simili individui possono creare in una società libera e massmediatizzata: sto ovviamente pensando ad uno dei più spaventosi misteri italiani, il Mostro di Firenze, e alla vera e propria psicosi che aveva generato nelle giovani coppie di tutta Italia e nelle loro famiglie: telegiornali, quotidiani, speciali televisivi, addirittura manifesti di allerta con un tetro occhio sbarrato fino al suicidio di un pizzaiolo pistoiese, tormentato solo perché somigliante al primo identikit del mostro. In quel caso poi la psicosi collettiva si tramutò in macabra comicità durante il processo a Pietro Pacciani, durante il quale ci venne sciorinato un interminabile caravanserraglio di macchiette toscane, sottobosco analfabeta e perverso della più arcaico bestiario contadino tra scemi del villaggio, donnacce menomate e violenti bestioni mescolati a messe nere e chirurghi feticisti appartenenti alle élite massoniche. Il tutto, come nella migliore tradizione italiana, senza poi dare un vero colpevole a quelle tragiche 16 vittime, giacché il Pacciani morì pienamente assolto ancorché in attesa del terzo grado di giudizio.
La psicosi collettiva è una delle caratteristiche che accompagnano tipicamente questi fenomeni, e mai nella storia come nella nostra società occidentale massmediatica la psicosi ha trovato terreno tanto fertile: ne abbiamo avuto e ne abbiamo tuttora prove giornaliere indiscutibili… Eppure, la psicosi da “mostro” ha dei precedenti ben più antichi, e anche ben più locali. E ce li raccontano gli Archivi di Stato milanesi.
Nell’estate del 1792, il 4 di luglio, il piccolo Giuseppe Antonio Gaudenzio, un bambino che pascolava l’unica vacca di famiglia nella campagna di Cusago, alle porte di Milano, scompare. Il giorno dopo vengono ritrovati un suo giubbino e i suoi calzoncini zuppi di sangue. Inizia così un incubo che è passato alla storia come “la bestia di Cusago” e che durò un’estate intera. Col passare dei giorni il numero dei piccoli innocenti ritrovati squartati cresce macabro e spaventoso, in una escalation di terrore sanguinolento che scatena una incredibile piscosi in tutto il Ducato di Milano, con proclami pubblici, manifesti, squadre di cacciatori, isterie collettive, messe pubbliche e dagli all’untore…esattamente come accadde ai tempi del nostro Mostro fiorentino. Si scoprì poi che trattavasi di una belva, secondo alcuni un lupo, secondo altri, e molto più probabilmente, di una iena scappata da un circo itinerante che da Milano si spostò a Cremona, dove arrivò con una sola delle due che aveva all’inizio del viaggio. Un caso interessantissimo in cui, in un tempo senza comunicazione di massa, un animale inferocito si comporta come un moderno serial killer creando una psicosi collettiva tipicamente “massmediatica”.
E per una belva che crea una psicosi da serial killer, c’è un serial killer che opera indisturbato nelle nebbie lombarde a cavallo dell’unità d’Italia. Il primo (forse) “serial killer” della storia ci è molto più vicino di quanto pensiamo: si chiama Antonio Boggia da Como, faceva il manovale e abitava a Milano, dove trovò la morte per impiccagione nell’aprile del 1862. Era un uomo appuntito e anonimo, non dedito al vizio e perfino religioso, come ci narrano le sentenze del Tribunale custodite all’Archivio di Stato di Milano. Eppure, ha ucciso, fatto a pezzi e murato nell’interrato di un piccolo magazzino di Via Bagnera ben quattro persone. Usava truffarle o farsi firmare procure e falsi testamenti per poi ( o prima…) ucciderle. O forse, dopo aver truffato la prima e averla dovuta uccidere per necessità, scoprì che la cosa gli dava, oltre che facile guadagno, estremo piacere. Nessuno ebbe mai alcun sospetto fino a quando un notaio non lo segnalò per un ambiguo testamento che gli aveva presentato, simile proprio a quello del suo primo delitto, il proprietario dello scantinato di Via Bagnera in cui murava le sue vittime, in un andirivieni notturno di grossi sacchi portati a spalla in cui c’erano i pezzi dei malcapitati clienti. Via Bagnera è la più stretta via di Milano, una traversa di via Torino che nonostante la collocazione oggi estremamente chic è ancora una via buia, piuttosto sporca e un po' inquietante: proprio là dove si accedeva alla cantina del “mostro” ancora oggi potete trovare un ingresso abbandonato di un moderno magazzino imbrattato di graffiti sudiciume e urine…e c’è chi dice che nelle fredde sere d’inverno il Boggia passeggi ancora lì sottoforma di gelido vento…
A volte ridacchiamo delle superstizioni del passato, eppure oggi i social trasudano idiozie senza fondamento e danno sfogo a una società che vive di slogan, umori e drammoni collettivi completamente incoerenti con la vita ben pasciuta e menefreghista che conduce.
Dare un’occhiata in archivio ci mostra che in fondo non siamo poi così cambiati, e che spesso, come diceva Alfred Hitchcock: “chi scappa, fa molta più paura del perché scappa”...
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
(la foto del professor Martelli è di Irina Mattioli
© RIPRODUZIONE RISERVATA
commenti