Nella sofferenza un Dio tremendamente vicino all'uomo
«Tu sei venuto tra noi/ per mettere in fuga la morte/ per snidare e uccidere la morte./ Anche a Te la morte fa male/ per questo sei amico/ di ognuno segnato dal male/ e ogni male/ Tu vuoi condividere». Con il linguaggio potente ed evocativo della poesia il grande e tormentato frate servita David Maria Turoldo, morto di cancro nel 1992, tratteggia in questi versi sofferti il fascino che promana da quel Dio inerme di fronte al male del mondo, da quel Dio che piange desolato nell’orto degli ulivi, che si carica sulle spalle, mansueto e silenzioso, l’arroganza del potere e la trivialità della soldataglia, che urla di dolore sotto i colpi dei flagelli che gli strappano la carne, che muore, intriso di sangue e di polvere, su un pezzo di legno al di fuori delle mura di Gerusalemme.
Il dolore e la morte di Cristo hanno sempre colpito l’immaginario pubblico: non è un caso che le celebrazioni del Venerdì Santo registrino ancora una partecipazione significativa dei fedeli. In quel giorno, come anche a Natale, l’uomo sente Dio più vicino, la sua impotenza riscuote ammirazione, la sua debolezza desta rispetto, il suo caricarsi il dolore del mondo quasi una sorta di gratitudine inconsapevole. Non c’è altro giorno in cui non si senta Dio così prossimo come appunto il Venerdì Santo.
La Via Crucis, quella pia pratica di devozione che ancora resiste nelle nostre parrocchie nei venerdì di Quaresima, suscita i medesimi sentimenti. È una preghiera che nasce nell’Alto Medioevo per aiutare il popolo ad immedesimarsi nei patimenti del Figlio di Dio e quindi spingere alla conversione del cuore e che solo alla metà del 1700, per opera di San Leonardo da Porto Maurizio, troverà la sua attuale forma celebrativa con le quattordici stazioni: dalla condanna di Gesù nel pretorio alla deposizione del corpo martoriato nel sepolcro.
Purtroppo in questo nostro tempo il dolore, la sofferenza, il patimento, la stessa morte sono bandite con violenza e disprezzo: lo scrittore tedesco-coreano Byung-Chul Han nel saggio “La società senza dolore”, uscito recentemente in libreria, approfondisce questo aspetto che, inevitabilmente, sta cambiando l’essenza dell’umano, i pilastri fondamentali della nostra società e anche l’approccio alla religione cristiana. Il piccolo volume inizia con una citazione assai eloquente del filosofo tedesco del secolo scorso Ernst Jünger : “Dimmi il tuo rapporto con il dolore e ti dirò chi sei”. Cioè dimmi quanto sei disposto a lasciare spazio al dolore nella tua esistenza, quanta sofferenza tua e degli altri vuoi caricarti sulle spalle, dimmi quante energie metti nella tua vita per evitare a te e ai tuoi figli esperienze che possano mettere in crisi, far soffrire... e ti dirò di che pasta sei fatto.
L’aumento preoccupante di casi di depressione e di autolesionismo tra adolescenti in questi ultimi mesi – certamente difficilissimi a causa della pandemia – dice l’incapacità del mondo adulto di introdurre le nuove generazioni alla vita in tutti i suoi aspetti accogliendo anche le sconfitte, i fallimenti, le umiliazioni, la sofferenza e perfino la morte. Ma una vita fatta solo di gioia, di entusiasmo, di vittoria, di affermazione personale è solo un’illusione, un paradiso artificiale che rende più meschini, egoisti, insensibili e per certi versi fragili.
Il cristiano non è un masochista che cerca il dolore, ma quando esso arriva lo accoglie, non come una punizione di Dio, ma come un’occasione che la vita offre per ritrovare sé stessi, un rapporto più vero e autentico con gli altri, un approccio al mondo meno arrogante e pretenzioso. La sofferenza affina l’umano e permette di vedere la realtà con più lucidità, di apprezzare fino in fondo le cose, anche quelle piccole, anche quelle che appaiono scontate, di camminare sulle strade della vita con più consapevolezza e saggezza, di giudicare la realtà con maggior prudenza e lungimiranza. Senza sofferenza non ci sarebbe compassione e, soprattutto, non ci sarebbe amore.
È indicativo che il termine “passione” abbia un significato ambivalente: può voler dire una grande sofferenza fisica o spirituale e nel contempo un’intensa e tormentata esperienza amorosa. Eloquente a tal proposito è il meraviglioso film “Viaggio in Inghilterra” del 1993 che narra la relazione tra lo scrittore Clive Staples Lewis e la statunitense di origine
ebrea Joy Gresham. Il grande scrittore, autore de “Le lettere di Berlicche” e “Le cronache di Narnia”, era anche un ottimo apologeta tanto che nelle sue conferenze pretendeva di difendere Dio di fronte allo scandalo del male e della sofferenza. Ma le sue teorie si schiantarono presto di fronte alla malattia di questa donna che, in maniera inaspettata, era entrata nella sua vita sconvolgendola totalmente. Quell’amore, ma soprattutto quella sofferenza – la donna poi morì di cancro poco dopo il matrimonio – lo cambiò profondamente, facendolo scendere dal podio dell’oratore applauditissimo, dell’intellettuale snob e un poco anaffettivo ad un uomo inerme, vulnerabile, fragile e spaesato di fronte ad un mistero che, lo si voglia o no, dà senso alla vita e rivela la profondità del cuore dell’uomo. Lewis, ad un certo punto sperimentò la grande lezione del dolore che gli permise di diventare veramente uomo.
La Via Crucis, il Venerdì Santo, il mistero di quel Dio “amico di ognuno segnato dal male” rappresentano una grande provocazione sia per il credente che per l’uomo contemporaneo. Per il credente tentato di cercare solo il Dio del mattino di Pasqua, cioè il Risorto vittorioso, dimenticando o trascurando il Morente Crocifisso, cioè la sofferenza come via privilegiata per la propria e altrui santificazione, la Croce come manifestazione piena di un amore che si immola e che non cerca nulla per sé stesso, la mortificazione del proprio io quando rischia di tiranneggiare sugli altri e sul creato.
Per l’uomo contemporaneo che ambisce a costruire un mondo lindo, ordinato, asettico come una sala operatoria, dove regna sono la gioia, dove si è sempre sereni, dove non ci sono costrizioni, impedimenti, ostacoli, prove... un mondo finto, profondamente egoista, incapace di emozionare il cuore, immune da quelle inquietudini che sono il fondamento di ogni genio artistico. Un mondo così perfetto da essere disumano.
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