Non serve essere eroi per convertirsi a Dio, ma…
Dopo aver riflettuto sulla qualità delle nostre attese e dei nostri desideri più profondi (prima domenica di Avvento), dopo aver riconosciuto il peccato che deturpa il volto bello della nostra umanità (seconda domenica di Avvento), in questa terza tappa, la domenica della gioia, la Chiesa, sempre attraverso Giovanni Battista, ci sprona a compiere gesti significativi di conversione.
Di questo veemente profeta che poggia un piede nell’Antico e l’altro nel Nuovo Testamento, conosciamo solo alcuni frammenti della sua predicazione: si tratta di frasi dure, estremamente severe, profondamente esigenti, che mirano a mettere l’uomo di fronte al male che alberga nel proprio cuore, a riconoscerlo, ad estirparlo anzitutto invocando il perdono dal Cielo.
Il battesimo che egli propone nel fiume Giordano e che è accolto da tanti israeliti è in fondo un corale atto penitenziale. Per il Battista preparare la via al Signore significa fare verità in sé stessi, riconoscere le proprie fragilità con determinazione e precisione e appellarsi alla misericordia divina.
Certo il suo “dire” non si sarà fermato a questo invito, sicuramente egli avrà pronunciato anche parole di speranza, promesse di una vita colma di pace interiore e di “senso”.
Riconoscere il proprio peccato con umiltà e mansuetudine significa, in ultima analisi, invocare l’aiuto di Dio perché ricostruisca, con il suo amore infinito, il cuore frantumato da passione sconsiderate e da vizi insani, perché ristabilisca la gioia interiore, quella che dura per sempre. Il peccato – diceva Turoldo - è sempre la risposta sbagliata ad un desiderio di felicità profonda, alla ricerca di quella bellezza che offre consistenza vera alla vita.
Di fronte a parole che scavano nell’intimo della coscienza e che permettono all’uomo di scoprire un amore tanto profondo quanto immeritato, tanti ebrei si rivolgono a Giovanni chiedendogli dei consigli per tradurre nella pratica l’invito alla conversione. Quale grandezza, quale autorevolezza, quale efficacia hanno le sue parole! Egli ha saputo toccare le corde del loro cuore, aprire una prospettiva nuova a certe categorie di persone che, tra l’altro, erano quelle più malviste dai sacerdoti, dagli scribi e farisei.
Il bello è che la conversione che prospetta Giovanni non richiede gesti eclatanti come lasciare tutti i propri averi, abbandonare i propri affetti o dare la vita per il Messia! Il Battista, infatti, invita a condire con la carità i gesti di ogni giorno. Perché l’amore, quello quotidiano, feriale, è la prova del nove della fede, è la traduzione nel concreto della propria adesione a Cristo!
“Che cosa dobbiamo fare?” è la domanda di chi si è lasciato interpellare sul serio dalla Parola, di chi ha riconosciuto quanto di grande e di bello Dio ha fatto nella propria vita, di chi, “stupito” da tanta grazia, non può far altro che rispondere puntualmente.
E allora alle folle Giovanni chiede di condividere i propri averi con gli altri sia che si tratti di abbigliamento sia che si tratti di cibo. Sant’Agostino asseriva: “Il superfluo dei ricchi è il necessario dei poveri. Possedere, allora, il superfluo è trattenere per sé il bene altrui”. Occorre, dunque, imparare a considerare sempre le esigenze dell’altro, alzare gli occhi dal proprio ombelico per incrociare lo sguardo di chi sta peggio. Condividere vuol dire mettersi in gioco non soltanto con le proprie risorse materiale, ma anche con il proprio tempo, le proprie energie, la propria empatia (quante volte abbia evitato di chiedere ad una persona “Come stai?” per non coinvolgerci nelle sue vicende?). Condividere porta poi ad una grande libertà interiore perché aiuta a non trasformare i beni in idoli che schiavizzano.
Anche dai pubblicani – assai odiati dagli israeliti sia per la loro esosità nel richiedere le tasse sia per il loro asservimento al dominio romano – Giovanni non pretende che cambino vita, che abbandonino il proprio lavoro o tronchino le proprie relazioni con i pagani, ma che non esigano nulla di più di quanto è loro dovuto. Era risaputo che i pubblicani facessero la cresta sulle tasse reclamando di più di quanto richiesto dai romani, ebbene a loro, Giovanni, chiede di essere onesti e di smettere di considerare gli altri come un bottino da depredare, ma come persone chiamate a contribuire, con le proprie sostanze, alla buona organizzazione della vita sociale.
E così anche ai soldati: il Precursore non confeziona una predica sul pacifismo e la non violenza, ma invita a considerare il proprio lavoro come un servizio alla comunità remunerato dalla paga e non da maltrattamenti ed estorsioni.
Convertirsi, quindi, significa mettere sempre amore, rispetto e comprensione nelle cose che si fanno per e con gli altri, far si che il proprio lavoro contribuisca al bene comune, ad edificare una convivenza pacifica ed armoniosa. Convertirsi significa fare spazio all’altro: anzitutto a Dio che è la sorgente della carità e che libera l’uomo dall’assurda e dannosa pretesa dell’autosufficienza, e poi al prossimo che è il volto concreto del Dio d’amore!
Non serve essere eroi per convertirsi a Dio, anche se questi passi che appaiono piccoli richiedono, di per sé, un pizzico di eroismo, cioè la capacità di morire un poco a sé stessi, alle proprie pretese, alla sottile tentazione di voler sempre dominare e primeggiare sugli altri.
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