Oltre la Croce c’è sempre una Luce!
Nel cuore dell’estate la Chiesa ci invita a salire sul monte Tabor per assistere ad un evento che profuma di Cielo: la trasfigurazione di Cristo. Gesù non ama i gesti eclatanti, rifugge da ogni spettacolarizzazione, aborre ogni tipo di esaltazione, ma ai suoi tre apostoli “prediletti” – Pietro, Giovanni e Giacomo – intende mostrare tutta la sua gloria e potenza, la sua straordinaria, immensa bellezza. Dalla sua umanità, infatti, trapela la sua divinità, il suo essere Dio. Un anticipo di Pasqua!
Egli compie questo prodigio subito dopo aver annunciato che, una volta entrato a Gerusalemme, dovrà essere consegnato agli uomini, che dovrà patire e morire in croce. I tre apostoli che ora ammirano la sua luminosità saranno gli stessi che lo contempleranno fragile e impaurito nella notte del Getsemani e poi insanguinato e sconfitto sulla Croce. Gesù, con la Trasfigurazione, vuol spiegare loro che la Croce non è la parola “fine” della sua umana avventura, che la passione non è il fallimento della sua missione, ma che c’è un’alba all’orizzonte che annuncia la Vita.
Pietro è tentato di rimanere incantato per sempre dinanzi a tanta bellezza di Gesù: egli assapora il gusto dell’Eternità e non vuole tornare alla vita reale, non vuole proseguire la strada per Gerusalemme: egli sa che essa porta al Golgota! Eppure per gustare questa bellezza, il pescatore di Galilea deve permettere a Gesù di essere sfigurato dalla crudeltà dell’uomo: solo se il seme muore porta frutto, solo perdendo la propria vita la si ritrova, solo amando si può davvero cambiare il mondo.
Agli apostoli Dio chiede di “ascoltare” Gesù, di abbandonare, cioè, il proprio modo di pensare e di agire e di fidarsi della sua Parola. Mentre Egli si trasfigura appaiono Mosè ed Elia: essi rappresentano tutta la storia di Israele, in un certo qual modo la ricapitolano.
Mosè è il grande liberatore del popolo dalla schiavitù di Egitto, ma soprattutto è il legislatore (la tradizione ebraica vuole che sia lui l’autore dei primi cinque libri della Bibbia, il Pentateuco), mentre Elia è il più grande dei profeti, l’indomito paladino dell’unica signoria di Dio sul mondo, il difensore del primato di Jahvé nella vita dell’uomo. Gesù è il Verbo eterno del Padre che prima si è incarnato in Mosè e nella Torah e poi in Elia e nella profezia. Ora questo Verbo risplende senza mediazioni!
Ascoltare non significa solo accogliere e custodire nel proprio cuore le parole di Gesù, ma riconoscere anzitutto che sono parole che interpretano alla perfezione l’umano, che, cioè, rivelano all’uomo la sua identità, il suo posto nel mondo, il suo destino.
Ascoltare, inoltre, significa acconsentire a che queste parole si concretizzino nella vita di ogni giorno: l’ascolto allora diventa obbedienza. Poiché sono parole che mi stupiscono ed entusiasmano, che aprono scenari nuovi nella mia esistenza, che davvero mi scaldano il cuore, allora cerco di viverle fino in fondo. Ascoltare Cristo, dunque, presuppone di mettere da parte il proprio orgoglio, la propria supponenza, quel fatalismo che porta a credere che tanto le cose non cambieranno mai. Ascoltare è un atto di fiducia, una fiducia ben risposta visto che Cristo non ci parla dall’alto di un pulpito, ma dall’alto di una Croce.
Quarantacinque anni fa, il 6 agosto 1978, nel palazzo apostolico di Castel Gandolfo, spirava santamente il papa Paolo VI. Forse uno dei pontefici più incompresi e dimenticati del Novecento, nonostante la sua recente canonizzazione. Fu un uomo di una cultura straordinaria, di una finezza e signorilità fuori dal comune, di una fede tanto indomita quanto sofferta. Giovanni Battista Montini, forgiatore di coscienze e padre nobile di una classe dirigente che ha risollevato l’Italia dalle rovine della guerra e che ha fatto della politica “la più alta forma di carità”, ebbe anche i tratti del martire. Il suo Pontificato fu tra i più difficili e controversi perché difficile e controverso è stato il tempo in cui egli ha regnato: la fine del Concilio con tutte le derive connesse, il boom economico con un consumismo sfrenato antesignano del secolarismo e del relativismo attuale e poi il Sessantotto con la rivoluzione culturale che ha aperto la strada ad una libertà senza responsabilità e progettualità. Paolo VI ha pagato la sua fedeltà al Vangelo e all’uomo, senza scendere a compromessi, ma non chiudendosi mai all’ascolto e al dialogo con il mondo. Nell’ultimo tratto della sua vita non gli è stato risparmiato neanche il dolore per la morte di un vero e proprio figlio spirituale fin dai tempi della Fuci, l’onorevole Aldo Moro. Scolpito nella roccia del tempo il suo discorso ai funerali di stato dello statista assassinato alla Brigate Rosse; non l’omelia del Pontefice Romano, ma il grido di un povero cristiano, inerme e smarrito dinanzi ad Dio che resta sempre misterioso: “Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo Uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla Fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, per lui”. Parole potenti che rivelano un animo che ha sempre combattuto per raggiungere una fede mai scontata. Paolo VI morì proprio il giorno della Trasfigurazione, ma prima di raggiungere la vetta del monte Tabor egli ha dovuto salire quella del Calvario, sotto il pesante legno della Croce. Così come fece il suo amato Maestro, il solo “necessario” per “imparare l’amore vero e camminare nella gioia e nella forza della carità”.
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