Omicidio Giulia Cecchetin: via al processo contro Turetta, sbarrata la strada alle associazioni che si occupano di violenza di genere, il punto
Lunedì 23 settembre il via al processo a Filippo Turetta, studente di 22 anni che ha ucciso con 75 coltellate la sua ex fidanzata Giulia Cecchettin, ventiduenne di Vigonovo (Venezia), dodici sono state le richieste di costituzione di parte civile. Un caso che ha sconvolto l’intero stivale. Siamo costretti a riportare ogni giorno casi di cronaca, ma non dobbiamo dimenticarci che “questi casi” sono esseri umani che potrebbero essere nostre figlie, nipoti, amiche, conoscenti, sono vite che meritano di essere vissute e non spezzate. A commettere i reati, spesso, sono ragazzi giovani, se non giovanissimi.
I fatti: il ragazzo è accusato di omicidio volontario pluriaggravato, occultamento di cadavere, porto d’armi e sequestro di persona: rischia l’ergastolo. Turetta ha confessato di aver accoltellato a morte la giovane. Nella prima udienza si è deciso in merito alla costituzione delle parti civili e su altri elementi tecnici legati allo svolgimento del processo. Turetta non si è presentato alla prima udienza in corte d’Assise di Venezia, composta da giudici popolari e presieduta dal togato Stefano Manduzio, ma è rimasto nella sua cella del carcere veronese di Montorio. Era presente, invece, Gino Cecchettin, padre di Giulia, che nell’atto di costituzione a parte civile depositato ha richiesto un risarcimento che supera il milione di euro.
Oltre alla richiesta di costituzione di parte civile avanzata da Gino Cecchettin, ci sono state anche quelle della sorella Elena Cecchettin, Davide e Alessio Cecchettin, fratello e zio paterno, Carla Gatto, nonna paterna. Ai parenti si sono aggiunti il Comune di Fossò ed il Comune di Vigonovo, tutti tutelati dai rispettivi legali; oltre alle associazioni Penelope; Differenza Donna; Udi Aps; I care We care e Insieme per Marianna.
L’avv. Giovanni Caruso, difensore di Turetta, si è opposto alla costituzione delle associazioni e dei due Comuni; stessa linea è stata tenuta dalla Procura di Venezia. “Non mi oppongo alle costituzioni dei parenti, ovviamente, ma a quelle di tutte le associazioni che non hanno avuto danni diretti” ha sostenuto in aula Caruso “si tratta di un caso tragico che ha interessato le forze più meritorie della società civile, in primo luogo i congiunti di Giulia in iniziative di carattere sociale, ma questo processo deve puntare a dire se Filippo Turetta merita una pena di giustizia e quale, non dev’essere una spettacolarizzazione che possa fare di Turetta il vessillo di una battaglia culturale contro la violenza di genere. I due Comuni non riesco a comprendere quale tipo di pregiudizio possano aver avuto in relazione a un esito tragico localizzato per motivi congiunturali, senza alcuna ratio”.
Dello stesso parere e a chiedere di non spettacolarizzare il processo è stato anche il procuratore capo di Venezia, Bruno Cherchi, che sottolinea il ruolo procedurale atto ad accertare le responsabilità personali e non a fare i processi ai dati sociali.
Dura è la risposta delle associazioni escluse che evidenziano quanto questa decisione segni un arretramento. Felicia D’Amico, rappresentante dell’associazione Insieme a Marianna, anch’essa esclusa dal processo, dichiara: “La decisione della Corte d’Assise di Venezia riporta tutto in una dimensione privata, come se il femminicidio di Giulia Cecchettin fosse una questione domestica, circoscritta a un ambito personale. Questo, però, è profondamente sbagliato. Il femminicidio non è mai solo una questione privata; ha un impatto pubblico e sociale, che merita un riconoscimento processuale adeguato. La Corte di Cassazione conferma da oltre un decennio la piena legittimazione delle associazioni a costituirsi parte civile”.
L’avv. Rossella Mariuz dell’UDI sottolinea: “La rilevanza pubblica di questo crimine non può essere ignorata. La violenza di genere, e in particolare il femminicidio, sono questioni che colpiscono profondamente la nostra società e devono essere trattate con la massima serietà e con piena consapevolezza del loro impatto collettivo. Escludere le associazioni dalle parti civili rappresenta una perdita non solo per il processo, ma per la comprensione completa e articolata di questi fenomeni”.
L’associazione I Care We Care, rappresentata dall’avv. Ilaria Deflorian, evidenzia che il femminicidio di Giulia Cecchettin deve essere considerato un tema di responsabilità collettiva: “Questa vicenda non riguarda solo le singole persone coinvolte, ma l’interesse dei consociati nel loro complesso, e per questo motivo ha un rilievo che coinvolge tutto l’associazionismo. La violenza di genere è una questione che tocca ogni angolo della società, e ogni decisione che la minimizza o la confina a una dimensione privata è un passo indietro nella lotta per il riconoscimento dei diritti delle donne”. Vittoria Tola, presidente UDI NAZIONALE sottolinea come “l’estromissione delle associazioni da parte della Corte d’Assise di Venezia dimostra quanto sia ancora attuale lo slogan “il personale è politico” creato dal movimento femminista più di cinquanta anni fa, e quanto sia ancora attuale l’esigenza che la formazione sui diritti giunga a tutti i livelli e anche alla magistratura che presenta ancora zone grige dove l’interpretazione delle norme penalizza l’ingresso delle associazioni nei processi, sino al paradosso che una stessa associazione venga ammessa in Emilia Romagna ma non venga ammessa in Veneto”.
In chiusura, Elisa Ercoli, Presidente di Differenza Donna, ribadisce: “È proprio di una cornice sociale strutturata secondo la discriminazione di genere fare distinguo tra ciò che è giuridico e ciò che non lo è. È stata una forzatura escluderci perché ha dovuto annullare tutte le volte in cui ci siamo costituite nei numerosi processi per femminicidio in giro per tutta l’Italia”.
Quando a prendere parola sono le donne o, insieme a loro, le associazioni che promuovono una trasformazione sociale verso la libertà dalla violenza di genere è un passo avanti per tutta la società. Ve lo immaginereste un processo per mafia in cui non vengono accolte le associazioni impegnate ogni giorno sui territori per il suo contrasto? Una follia, anzi una decisione che banalizza l’importanza delle associazioni di donne e dei centri antiviolenza, un pezzo delle istituzioni, l’autorità giudiziaria, che fa fatica ad adeguarsi culturalmente all’attualità e al diritto contemporaneo e nel farlo gestisce un potere che fa arretrare tutte e tutti. Essere nei processi come società civile esperta della violenza maschile come attiviste dei diritti delle donne è un patrimonio irrinunciabile, chi non lo comprende è parte del problema.
L’avv. Stella Abbamonte, Presidente dell’Associazione I care, We care, con sede a Cremona, rimarca: “La tragedia di Giulia Cecchettin ha avuto un forte impatto mediatico e ha costituito un momento di svolta nella lotta alla violenza di genere, perché ha toccato molte persone, in particolare i giovani: la nostra Associazione I care, We care ha avuto modo di verificarlo in concreto in occasione dei progetti scolastici svolti negli ultimi mesi. Molte ragazze e ragazzi hanno voluto approfondire questo tema e diverse studentesse hanno avuto la forza di parlare davanti ai loro compagni di violenze subite direttamente o da amiche loro vicine. Questa condivisione ha reso le ragazze ed i ragazzi più forti e consapevoli dei rischi di alcuni comportamenti e ha fatto sentire uniti studentesse e studenti, accomunati dal desiderio di combattere la violenza, insieme. Perché noi tutti abbiamo un ruolo fondamentale.
Penso anche ad una mia cliente che ha denunciato uno stupro dicendomi: “ Avvocata, ho trovato la forza perché non voglio accada ad altre, voglio che sappiano il rischio che corrono”. Il senso dell’istanza di costituzione di parte civile nel processo contro Turetta delle associazioni a tutela dei diritti delle donne è proprio questo: essere al fianco della vittima, Giulia, e di tutte le vittime, delle quali si parla meno. Vogliamo tutelare i diritti delle nostre mamme, figlie, sorelle, mogli, amiche e prevenire questi fenomeni diffondendo una cultura del rispetto. La violenza non è un fatto privato. Questo è il senso della nostra battaglia. È giunto il momento di capire che se parliamo di violenza contro le donne e di violenza domestica non possiamo più accettare l’idea che “i panni sporchi si lavano in casa propria”. È il momento di parlare, anche per dare alle vittime la forza di denunciare e per dare ad ognuna di noi la consapevolezza dei propri diritti e del proprio valore”.
Robert Frost scriveva : “Metà della popolazione mondiale è composta da persone che hanno qualcosa da dire ma non possono. L’altra metà da persone che non hanno niente da dire e continuano a parlare”. Fa riflettere.
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commenti
Stefano
25 settembre 2024 20:38
Sono d'accordo col giudice e col difensore. Ogni delitto ha un impatto pubblico. Allora cosa facciamo? Invitiamo il mondo intero a chiedere risarcimenti?