Pandemia. perchè penalizzare così i luoghi della cultura?
Il “Ministro della Cultura” Franceschini (piccola frecciata, consentitemela: da luglio si chiama così, gli adorati “Beni Culturali” forse erano troppo dannunziani, ma temo che si siano un po' scordati che anche i “Ministeri della Cultura” piacevano ai Goebbles e anche ai Suslov…) sostiene che “con il Green Pass ripartirà la cultura”, e con lui molti intellettuali, addetti ai lavori e media del settore. Ma il mondo della “cultura” è letteralmente spaccato in due. La testata Art Tribune, che ha da sempre sostenuto il Green Pass, è stata subissata di critiche ferocissime dai suoi stessi lettori. Massimo Cacciari ha gridato, anche se molto intelligentemente, alla dittatura e si è arrivati perfino alle dimissioni per protesta di alcuni importanti direttori museali, come a Napoli per esempio. Ciò su cui tutti ufficiosamente concordano è che in realtà il Green Pass nei luoghi di cultura sia superfluo rispetto alle tantissime precauzioni già adottate (mascherine, distanze, temperature) e alla sostanziale impossibilità di trovarsi con assembramenti in musei, pinacoteche, archivi, teatri etc.. dove peraltro di norma non si parla ma si guarda. Tanto più che in tutta Italia gli aperitivi stradali esplodono letteralmente di gente che si ammucchia sputandosi addosso noccioline spritz e miasmi di ogni genere, senza parlare poi dei festeggiamenti selvaggi per le manifestazioni sportive …
A molti pare l’ennesimo provvedimento di un sistema che non riesce a governare questa epidemia se non ingigantendone la portata e contemporaneamente riducendone la risoluzione con tentativi “one-shot” che vanno dal Lockdown al vaccino ma sempre accomodati: sfumature di colori sulle zone e vaccini non obbligatori ma resi tali per poter condurre una vita normale ma solo al chiuso e non all’aperto, invece di spingere verso un cambiamento culturale e sociale che sia in grado di governare la pandemia adottando soluzioni strutturali e di lunga durata come fatto in Corea del Sud, in Cina e in Giappone.
Sulle dimissioni di alcuni direttori di musei si potrebbe discutere a lungo: a mio avviso ci sono mille altri motivi quotidiani per i quali chi dirige un ente culturale dovrebbe dimettersi disperato, tra le mille leggine e regolamenti che ormai rendono quasi impossibile realizzare iniziative e progetti se non a scapito della propria tenuta psico-fisica, ma in quanto funzionari dello Stato si obbedisce alle leggi (e ai finanziamenti senza i quali non si esiste): io, pur essendo già doppiamente vaccinato eppure contrario al Green Pass nei luoghi culturali, nelle mie strutture lo applicherò come stabilito dalle norme. Rimane, certo, il sacro principio dell’obiezione di coscienza, che è tale proprio perché obietta rispetto ad un pensiero o una prassi dominante: e in effetti, il sentore che si tratti di una misura coercitiva gratuitamente imposta a musei e affini senza batter ciglio perché tanto campano solo di soldi dello Stato c’è, oltre che nella convinzione che aiuti a convincere i più restii alla vaccinazione, sulla quale però, va proprio detto, lo Stato non si prende la briga dell’obbligo, ma scarica sul cittadino che deve firmare una malleva totale in bianco sulle controindicazioni. E lo Stato Etico dov’è? Inoltre, i più paventano già una terza e forse quarta dose, che assieme alle non poche controindicazioni e perplessità sui vaccini, renderebbe questa stretta sul Green Pass molto duratura e decisamente indigesta (e speriamo non diventi anche pericolosa…).
Al netto della sua funzione di sprone alla vaccinazione totale per uscire dei guai, il Green Pass sembra a molti un ulteriore meccanismo inerziale e deresponsabilizzante che la burocrazia ha generato dalla pandemia, ed ha comunque molto il sapore di un ulteriore strumento di controllo, ed anche piuttosto serio, in un contesto sociale che dipende sempre più per ogni necessità vitale dal cellulare, che consegna a piene mani la nostra vita a delle società private che vi lucrano commercialmente. Di certo la cultura non morirà per un Green Pass, e pur molto diffidente, concedo ai nostri governanti il beneficio della fiducia che davvero serva a ripartire, anche se ho il timore che l’autunno ci riserverà ancora limitazioni e zone più o meno rosse, e che il sistema Green Pass farà un po' la fine del meccanismo dei Lockdown.
Detto questo, il Ministero della Cultura ha da sempre sposato e appoggiato senza tentennamenti ogni misura restrittiva imposta alla cultura italiana da inizio pandemia, anche se è abbastanza chiaro a tutti che non vi siano certo rischi di assembramenti o simili. Ma del ruolo dei luoghi della cultura e durante la pandemia e più in generale nell’era digitale si è parlato davvero poco: servono veramente ancora? E’ in corso una sorta di eutanasia dei luoghi della cultura o semplicemente sono obsoleti e poco reattivi? Perché dall’inizio della pandemia sono stati chiusi e penalizzati così tanto? E’ ovvio dire che è perché in fondo non sono servizi vitali, e anche che in un certo modo la loro chiusura era un deterrente alla circolazione del virus; meno ovvio che la loro chiusura è un meccanismo automatico, facile, dato che non servono per vivere ma vivono quasi solo grazie allo Stato, e perché, diciamolo, moltissimi di questi erano sempre e comunque tragicamente vuoti. Il che ci deve interrogare anzitutto sul futuro di questi luoghi oltre che sulla loro condizione attuale. L’Italia è piena di musei “museini” e centri culturali cresciuti come funghi negli anni più per campanilismo che per necessità, ma che in realtà faticano perfino a rimanere aperti, a prescindere dalla pandemia. Buona parte dei grandi musei da par suo per anni ha mantenuto un approccio conservativo/espositivo a scapito di quello didattico/interattivo, facendo leva sulla propria collocazione magari in luoghi prestigiosi, dove il flusso dei visitatori ad hoc andava di pari passo con quello dei turisti occasionali dei centri storici: fermati i turisti, i musei si sono quasi svuotati. Quindi, al netto del Green Pass, molto andrà rivisto e ripensato della loro gestione nel mondo di domani, che è già qui oggi: un mondo dove si circolerà molto di meno e quindi ci saranno molti meno visitatori, e in cui il digitale avrà un ruolo centrale ma che è tutto da capire.
Proprio Dario Franceschini è reduce dalla disavventura ItsArt, la piattaforma multimediale lanciata a maggio che avrebbe dovuto essere “la Netflix della cultura italiana” e che invece è stata un flop, come lo sono state quasi tutte le fiere e le iniziative digitali lanciate dal mondo dell’arte da inizio Covid: il che ci porta a pensare che il rapporto dell’arte con il digitale è molto più complesso di quanto pensiamo, e richiederà molta più pazienza e molte più idee di quanto immaginiamo. Ed anche che il rapporto dell’uomo con la cultura continua ad essere un rapporto “fisico”, “locale”, “turistico” nel senso della visita materiale a dei luoghi.
Quello di cui io continuo ad essere certo è le azioni dell’uomo sono figlie della sua cultura. Questa epidemia si vincerà soltanto con un cambiamento culturale, e trattare i luoghi della cultura come questioni di second’ordine non fa ben sperare.
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
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commenti
Annamaria
8 agosto 2021 09:45
Che dire....mi ha letto nel pensiero....
Opinione personale: qualunque "meraviglia" digitale non potrà mai sostituire (per fortuna) l'emozione di vedere dal vivo un oggetto, un'opera d'arte, un paesaggio, di sentire il profumo di un bosco....
Teresa
8 agosto 2021 14:39
Condivido pienamente....