Suggerimento agli incravattati: scarpe da battaglia e venite a scoprire il Po a Primavera
“Ad ascoltare mi ha insegnato il fiume, e anche tu imparerai da lui. Lui sa tutto, il fiume, tutto si può imparare da lui. Vedi, anche questo tu l’hai già imparato dall’acqua, che è bene discendere, tendere verso il basso, cercare il profondo”: dovrebbero risuonare spesso, queste parole dello scrittore e filosofo Hermann Hesse, nell’animo di tutti. In questa società, sempre più spesso abbagliata dall’esteriorità e segnata dalla superficialità, sfregiata dall’effimero e dalla continua fretta, c’è bisogno di profondità, e di silenzio, partendo dal basso. Sono valori sfuggiti agli incravattati dal deretano piatto, e pelato, abituati al velluto delle loro poltrone e dei loro agi, capaci di decisioni che a noi, gente di campagna, cresciuti su sedie impagliate, all’ombra dei pioppi o di vecchi fienili, sembrano non solo fuori dalla realtà, ma anche lontani da quella saggezza che i nostri nonni, hanno costruito e alimentato nelle loro famiglie, fra la loro gente, spesso reduci dalle fatiche e dai dolori della guerra. Molti di loro protagonisti di quella Resistenza che, in questi giorni di fine aprile, ancora una volta, come ogni anno, si va a ricordare.
Qualche mese fa, molto indegnamente, avevo invitato gli incravattati a trovare una giornata per lasciar da parte il velluto e venire a sedersi su un vecchio tronco, in riva al fiume. Per fare due chiacchiere e parlare dei nostri villaggi cresciuti attorno a un vecchio campanile. Non mi aspettavo una risposta, che infatti non è arrivata. Non rappresento nessuno, se non me stesso, non ho ambizioni particolari, non farei mai politica e mai, in vita mia, indosserei una giacca o una cravatta. Qualche anno fa, durante una visita alla Camera dei Deputati, proprio all’ingresso mi venne detto “lei non può entrare”. Dopo un primo istante di perplessità mi scappò da ridere e dissi “mi hanno già riconosciuto”; poi provai a pensare al motivo per cui dovevo starmene fuori, a differenza degli altri che erano con me. Niente, non riuscivo a capacitarmi. Alla fine mi venne spiegato: non potevo entrare perché sprovvisto di giacca e cravatta, e il rituale prevede che siano indispensabili. “Con tutti i problemi che ci sono in Italia – pensai – il grande dilemma sta in una giacca e in una cravatta. Questi, sì, sono i problemi”. Alla fine, mossi forse da pietà cristiana, mi fornirono l’una e l’altra permettendomi di entrare. Mi sentivo decisamente un pesce fuor d’acqua, imbalsamato come una mummia dentro a cose che non mi appartenevano, che mai farebbero parte della mia persona. Ma forse, in certi ambienti, l’effimero e la falsità primeggiano,anche in queste piccole cose e ci si dimentica di quanto sia invece necessario essere sempre sé stessi e badare all’essenziale. Non dimentichiamo mai le nostre origini, da dove veniamo, la nostra indole e non lasciamo mai, per nulla al mondo, la nostra personalità.
Al mio ritorno a casa provai una straordinaria sensazione di libertà e di pace, andando subito alla ricerca di quel silenzio che solo la natura sa regalare. Andai a sedermi sulla riva del fiume, masticando un filo d’erba, ripromettendomi che mai più lo avrei lasciato. Del resto certi palazzi non fanno proprio per me: nemmeno da visitatore. Preferisco e continuerò a preferire una casa colonica, magari mezza diroccata, a un palazzo monumentale in cui anche un filo di polvere farebbe difetto. Il piccolo cartello sulla mia cassetta della posta che recita “Vietata tutta la propaganda elettorale” credo dica il resto.
Il vecchio tronco è ancora lì, lo occupo ogni giorno. Non è un luogo adatto per chi indossa mocassini e cravatte: in questo periodo le ortiche sono già cresciute ed è facile pungersi il di dietro. Meglio che ognuno rimanga al proprio posto. Gli incravattati sul loro velluto; io, in silenzio, sul mio tronco perché, come diceva Giovannino Guareschi, si sta meglio qui, su questa riva: e non importa, aggiungo io, che sia quella di destra o di sinistra. Si sta meglio, e basta.
Tuttavia non demordo e, agli incravattati, consiglio di trovare un momento in cui indossare un paio di scarpe “da battaglia” (come diciamo noi da queste parti) e percorrere gli argini del fiume, meglio ancora se di questi tempi in cui sono dipinti dal giallo del ranuncolo e della senape selvatica, dal bianco delle margherite e del latte di gallina, dal blu della salvia pratense. Respirando, a pieni polmoni, i profumi del foraggio e del fieno, delle vecchie stalle, dei boschi e delle lanche fluviali. Da fare in solitudine ripensando esattamente alle parole di Hesse: “è bene discendere, tendere verso il basso, cercare il profondo”. Per trovare le soluzioni migliori e, soprattutto, per tornare ad ascoltare senza ritenersi depositari del giusto . Allora ci si accorgerà che determinate scelte, come quella di riaprire i locali solo all’aperto, che in questi giorni stanno sollevando tante proteste, specie nei piccoli centri di campagna sono una ulteriore mazzata per tanti lavoratori, e tanti giovani che hanno purtroppo perso molte speranze nel domani. Curioso, poi, che si permetta di aprire solo all’aperto in una stagione, quella primaverile, in cui le piogge non rappresentano certo una sorpresa.
Se è vero che, solo pochi mesi fa, si erano decise misure meno restrittive per quei piccoli borghi sotto i cinquemila abitanti (come la possibilità di spostarsi entro un raggio di 30 chilometri dalla propria residenza), forse sarebbero altrettanto necessarie, per i nostri stessi piccoli comuni, soluzioni meno pesanti. Dando ad esempio la possibilità di aprire anche al chiuso, oltre che all’aperto, con posti solo a sedere e distanziati. Rendendo senz’altro più flessibili gli orari della sera. Del resto, nei centri di campagna, quello che oggi viene definito coprifuoco (parola che onestamente rifuggo perché rimanda a tempi non belli) ce lo siamo sempre fatti da soli.
Troppo diverse sono le caratteristiche di un piccolo borgo rispetto ad una città; troppo diverse le situazioni, le esigenze, le peculiarità e i problemi. Anche per questo occorrono decisioni diverse, flessibilità e capacità di ascolto. Anche nei confronti di quei sindaci, e sono tanti, che in prima linea si fanno portatori delle problematiche e delle richieste della gente di campagna. Trovando, purtroppo, il più delle volte, un muro: ed i muri, la storia ce lo ha insegnato, non hanno mai portato a nulla di buono creando solo ulteriori divisioni. Di cui non c’è e non abbiamo bisogno.
Anche la gente, senza distinzione di idee e di età, deve fare la sua parte, perché è facendo squadra che si può trovare il bene comune. Rispettando pochi e semplici accorgimenti, per limitare al massimo ogni rischio, chiedendosi continuamente se una nostra azione può essere motivo di rischio per chi ci sta intorno. Non è ancora il momento di dare vita ad adunate; quale migliore occasione allora per continuare a scoprire una dimensione più umana, più intima e solitaria: il piacere di una camminata tra gli spiaggioni e i boschi del Po, una sana lettura all’ombra di un gelso, una buona pedalata che porti a scoprire, vivere e ammirare l’una e l’altra sponda del fiume. Cercando sempre il profondo, tendendo al basso. Senza perdersi l’opportunità di gustare quei prodotti che, su questa o quell’altra riva, danno vita, e lavoro, alla nostra gente. Fermandosi accanto a una delle tante maestà che si incontrano ai crocevia e ai quadrivi delle nostre strade basse, per una sosta silenziosa, una breve preghiera e un pensiero rivolto al domani.
Perché tutti insieme si può essere protagonisti, e non spettatori, di un futuro migliore, anche tra mille dubbi e paure, senza mai perdere la meta, consapevoli di ciò che abbiamo e di dove possiamo arrivare, come il fiume che, come scriveva Khalil Gibran, sa che esiste il mare anche prima di raggiungerne le sponde.
Eremita del Po
© RIPRODUZIONE RISERVATA
commenti
Guido
25 aprile 2021 15:54
Bello e ben scritto.
È pieno di poesia.
I miei avi erano contadini poveri,dignitosi,gente del Po.