Per trasfigurarsi è necessario sfigurarsi
Testardamente la Chiesa, ogni anno, all’inizio del tempo quaresimale, ci invita a compiere lo stesso identico itinerario: dal deserto al colle, dalle brulle e assolate distese di sabbia e di rocce che si estendono dalla zona orientale di Gerusalemme fino al Mar Morto al bizzarro monte Tabor che si affaccia sulla ridente e fertile pianura di Esdrelon, in Galilea.
Un percorso geografico che è anzitutto spirituale e che inizia dalla presa d’atto che la vita cristiana è un’ardua ma esaltante lotta contro il male che vuole pervertire la nostra libertà tentandoci a cercare la felicità da soli. Una tenzone che non è fine a sé stessa, ma che porta ad una vera e propria trasfigurazione nell’amore, un profondo cambiamento di identità e di prospettive.
La Chiesa ci conduce su questa altura, dove oggi sorge una austera basilica francescana in stile siro-romano, per ricordarci che oltre il sentiero oscuro del peccato, della sofferenza, della fatica legata alla purificazione del cuore c’è un traguardo luminoso, una terra dove domina solo la bellezza, la gioia della compagnia, la realizzazione piena dell’umano.
Gesù, con questo gesto singolare e prodigioso, vuol spiegare ai suoi tre discepoli prediletti – e a noi tutti - che la Croce non è la parola “fine” della sua umana avventura, che la passione non è il fallimento della sua missione, ma che c’è un’alba all’orizzonte che annuncia la Vita. I tre apostoli che ammirano la sua maestosità, infatti, sono gli stessi che lo contempleranno fragile e impaurito nella notte del Getsemani e poi insanguinato e sconfitto sulla Croce.
Pietro è tentato di rimanere incantato per sempre dinanzi a tanta bellezza di Gesù: egli assapora il gusto dell’Eternità e non vuole tornare alla vita reale, non vuole proseguire la strada per Gerusalemme: egli intuisce che essa porta al Golgota! Eppure per gustare questa magnificenza, il pescatore di Galilea deve permettere a Gesù di essere sfigurato dalla crudeltà dell’uomo: solo se il seme muore porta frutto, solo perdendo la propria vita la si ritrova, solo amando si può davvero cambiare il mondo.
Agli apostoli Dio chiede dalla nube misteriosa di “ascoltare” Gesù, di abbandonare, cioè, il proprio modo di pensare e di agire e di fidarsi della sua Parola. Mentre Egli si trasfigura appaiono Mosè ed Elia: essi rappresentano tutta la storia di Israele, in un certo qual modo la ricapitolano.
Mosè è il grande liberatore del popolo dalla schiavitù di Egitto, ma soprattutto è il legislatore (la tradizione ebraica vuole che sia lui l’autore dei primi cinque libri della Bibbia, il Pentateuco), mentre Elia è il più grande dei profeti, l’indomito paladino dell’unica signoria di Dio sul mondo, il difensore del primato di Jahvé nella vita dell’uomo. Gesù è il Verbo eterno del Padre che prima si è incarnato in Mosè e nella Torah e poi in Elia e nella profezia. Ora questo Verbo risplende senza mediazioni! Egli è il vertice della storia, oltre non c’è che il Regno!
Ascoltare non significa solo accogliere e custodire nel proprio cuore le parole di Gesù, ma riconoscere anzitutto che sono parole che interpretano alla perfezione l’umano, che, cioè, rivelano all’uomo la sua identità, il suo posto nel mondo, il suo destino.
Ascoltare, inoltre, significa acconsentire a che queste parole si concretizzino nella vita di ogni giorno: l’ascolto allora diventa obbedienza. Poiché sono parole che mi stupiscono ed entusiasmano, che aprono scenari nuovi nella mia esistenza, che davvero mi scaldano il cuore, allora cerco di viverle fino in fondo. Ascoltare Cristo, dunque, presuppone di mettere da parte il proprio orgoglio, la propria supponenza, quel fatalismo che porta a credere che tanto le cose non cambieranno mai. Ascoltare è un atto di fiducia, una fiducia ben risposta visto che Cristo non ci parla dall’alto di un pulpito, ma dall’alto di una Croce.
Ascoltare, obbedire, umiliare il proprio io… si tratta di una grande forma di ascesi, impegnativa e dolorosa, perché tocca nervi scoperti: la pretesa di imporre sé stessi, di essere sempre vincenti, di non abbassare mai la testa anche se si è dalla parte della ragione. Per trasfigurarsi occorre accettare di farsi “sfigurare” cioè di lasciare che la realtà in cui si è immersi – eventi, fratelli, Dio stesso - percuotano la superbia, l’orgoglio, la supponenza, l’arroganza che avvelenano il cuore e quindi le relazioni interpersonali.
È interessante che al termine di questa teofania i discepoli contemplino Gesù “solo”: Mosè ed Elia sono scomparsi e la nube da cui era uscita la voce di Dio si è dissolta. Ora il Cristo non ha più vesti splendide e bianchissime, ha ritrovato le sue sembianze di uomo. Per assaporare la grande definitiva “trasfigurazione”, cioè la risurrezione, la vittoria della vita sulla morte, è necessario attraversare la prova della Croce, che non è ricerca fine a sé stessa dalla sofferenza e del dolore – il cristiano non è un sadico masochista -, ma accoglienza sino all’estreme conseguenze della vulnerabilità dell’amore.
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