Perché chiamiamo buono uno dei due malfattori?
Quando pensiamo a Gesù in croce in mezzo ai due malfattori, la consuetudine con certe scene del Vangelo ci porta a non sentire particolarmente scandaloso che uno di essi venga detto “buono”. Devo però confessare che a me qualche problema questo aggettivo lo dà, per due motivi. Innanzitutto perché ritengo che si dovrebbe attribuire tale qualità solo a chi veramente la merita. Quando penso ad una persona buona, penso a chi è disponibile ad aiutare gli altri, a chi non farebbe male a nessuno, a chi è pronto a rimetterci del suo perché chi gli sta vicino stia bene: i genitori sono buoni verso i figli, gli amici sono (o dovrebbero essere) buoni tra di loro, i santi sono buoni perché con Dio nel cuore sanno fare del bene a coloro che incontrano lungo le strade della loro vita. L’uomo che si trova in croce alla destra di Gesù non è assolutamente buono in questo senso. Egli stesso riconosce che si trova in croce perché riceve il giusto per quel che ha fatto: non si tratta di un innocente, ma di qualcuno che ha compiuto azioni che non sono certamente quelle di un uomo buono.
Inoltre, non mi piace chiamarlo buono anche perché così mi sembra di sminuire le parole di Gesù. Cosa ci sarebbe di strano se Gesù accogliesse una persona buona in paradiso? È quello che tutti noi ci aspettiamo: che Dio premi i buoni e castighi i cattivi. È un pensiero semplice per immaginare Dio e rapportarsi con lui.
Luca però ci pone di fronte a una situazione ben diversa. L’uomo che sta a destra di Gesù è una persona cattiva, un “malfattore” dice Luca, un uomo che merita di essere in croce. Si tratta di uno dei tanti cattivi che affollano le pagine dei nostri giornali prima e dopo le condanne dei tribunali. È una di quelle persone di cui l’opinione pubblica non avrebbe alcuna pietà, uno di quelli per cui i familiari delle sue vittime direbbero di non poterlo perdonare in alcun modo, perché troppo grandi sono i suoi crimini.
Per questo non riesco a riconoscerlo “buono”.
Leggendo il Vangelo, mi accorgo che a Luca nemmeno interessa dirci i motivi per cui quest’uomo si affidi a Gesù: forse un’ombra di pentimento, forse paura della morte, forse una vera e propria conversione. Semplicemente a Luca interessa dire che nell’ora della morte il malfattore si è affidato a Gesù e come Maria sorella di Marta, come Zaccheo, come la donna peccatrice in casa del fariseo, come il lebbroso tornato indietro, questo malfattore ha ottenuto la salvezza. Anzi, ha ricevuto da Gesù la sentenza più certa e più consolante che nessun tribunale umano potrebbe dare: “In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso”. È una proclamazione solenne, infallibile quella di Gesù, una canonizzazione in piena regola, con un’unica differenza: per dichiarare beato o santo qualcuno la Chiesa attende il miracolo, qui è Gesù che lo compie, facendo di un cittadino dell’Ade, un abitante del cielo.
Così quest’uomo diventa “buono”. E allora non mi fa più problema riconoscergli questo aggettivo, perché è Gesù che senza meriti glielo ha donato. Non è buono per quello che ha fatto, non per come ha vissuto, ma perché si è affidato a Dio in Gesù, e così è stato accolto nel Regno.
Un regno paradossale, se il primo abitante è questo malfattore, il secondo Adamo, e poi a seguire innumerevoli peccatori pentiti. Questo è il regnare di Dio che in Gesù si manifesta.
Oggi la Chiesa ci invita a contemplare questa regalità, a considerarne le caratteristiche, a stravolgere le nostre concezioni di corone, scettri e troni per prendere le misure di Gesù, un re che non si innalza, ma si abbassa, fino “alla stessa” condizione dei sudditi. Gesù ha regnato nella sua vita facendo propria la stessa fatica di un lavoratore, la stessa vita degli uomini e delle donne del suo tempo, la stessa gioia che potevano provare esseri umani sudditi e oppressi da una dominazione straniera, la stessa povertà di chi non ha dove posare il capo, la stessa pena dei condannati a morte. Gesù fa sua la nostra stessa vita e così insegna all’uomo la via della regalità, il vero senso della parola ministro: colui che si pone a servizio, accanto agli altri.
Gesù è un re senza eguali nella storia. E la sua unicità diviene modello anche per noi, un modello di pensiero e di azione. Ancora oggi Gesù, regnante dalla croce, ci ricorda che per diventare buoni in Lui non è mai troppo tardi. Buoni non si diventa per uno sforzo personale, si diventa buoni lasciandosi possedere dalla bontà di Dio, lasciando che Dio abiti in noi con la forza del suo Spirito.
È bello allora vedere in questo malfattore una persona buona, nonostante tutto, perché la sua bontà parla anche della mia bontà possibile: oltre il male compiuto, oltre la pena giusta che umanamente deve essere inflitta, oltre il giudizio che la società tiene contro chi ha sbagliato. La regalità di Gesù offre oggi a ciascuno di noi anche uno sguardo buono sul mondo, perché ci riporta allo sguardo di Dio che vide tutto buono fin dalle origini, perché capace di guardare anche con l’occhio del perdono e della misericordia. Solo Gesù, che ha la stessa capacità di vedere che ha Dio, può accogliere in Paradiso anche chi ha fatto del male e può chiederci di essere ambasciatori e ministri di questa immensa bontà, segno di autentica regalità.
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