Prendere coscienza di chi siamo veramente
Che cos’è il peccato? È la grande illusione di poter trovare la felicità in solitudine, senza nessun legame, anzi a discapito di Dio e degli altri. È la risposta sbagliata al nostro sacrosanto desiderio di pienezza, di autenticità, di verità. È mettere al centro sempre se stessi usando il prossimo e, persino l’Onnipotente, come un mero strumento per i propri meschini interessi.
Il peccato spinge a concentrarsi unicamente sul proprio ombelico, come se non ci fosse un altro orizzonte su cui posare lo sguardo. Esso, però, possiede una grande attrattiva: far apparire, almeno superficialmente, il male come bene, cioè come l’occasione, per la persona, di guadagnare qualcosa di importante per sé: un godimento immediato, una posizione invidiabile, delle risorse importanti! Il peccato sposa la teoria del “tutto e subito”, mettendo al bando ogni fatica, ogni sacrificio, ogni vero coinvolgimento interiore!
Il peccato rende voraci, trasforma l’uomo in un consumatore seriale non solo di cose, ma anche di persone, relazioni, sentimenti, emozioni… Per chi si lascia sedurre dal peccato il mondo e gli altri diventano unicamente delle prede da conquistare e da utilizzare esclusivamente per il proprio benessere e i propri scopi. L’altro è ridotto a una semplice merce che va consumata o va venduta!
A lungo termine, però, il peccato ha come conseguenza nefasta un profondo e lacerante senso di solitudine perché rompe ogni vera relazione esterna sia con Dio sia con le persone che si incontrano ogni giorno. E in più il peccato disgrega la persona nel suo intimo, rendendola estranea a sé stessa, quasi irriconoscibile facendola disperare perché certi atteggiamenti o certe parole non fanno parte del suo essere più profondo: “A volte faccio e dico cose – mi raccontava un penitente durante le confessioni natalizie – che non ho mai fatto o pronunciato. Non mi ritrovo più con me stesso”. È la stessa sensazione che prova San Paolo: “Vedo il bene, ma faccio il male!”
Il peccato, purtroppo fa questo! Trasforma lentamente, quasi impercettibilmente, l’uomo facendolo schiavo di abitudini e inclinazioni malsane che mutano la sua identità più intima. E non bisogna temere solo i peccati mortali, quelli più gravi, quelli che rompono la comunione con Dio e che impediscono di godere della sua grazia! Bisogna aver paura anche dei peccati veniali, quelli molto meno gravi e proprio per questo più diffusi. Tali “mancanze” sono perdonate all’inizio di ogni celebrazione eucaristica, durante l’atto penitenziale! Tutto ciò, però, non ci deve trarre in inganno perché i peccati veniali nonostante siano “cose da poco”, creano un clima interiore che conduce alla mediocrità, alla tiepidezza spirituale! Non permettono, cioè, di compiere quegli slanci di entusiasmo e di autentica carità che hanno caratterizzato la vita di tanti santi.
Come abbiamo già detto tante volte la prima cosa da fare quando si decide di convertirsi, cioè di cambiare la direzione dello sguardo – dal proprio ombelico al volto dell’Altro -, è assolutamente necessario dare un nome al peccato o ai peccati che albergano nel cuore: una patologia si cura con una buona diagnosi! In altre parole: se non conosco le malattie che umiliano il mio corpo, come posso scegliere le medicine più adatte per tornare sano?
Consiglio? Ogni sera, prima di coricarsi, dedicare qualche minuto all’esame di coscienza che permette di far passare l’intera giornata e di rileggerla con gli occhi del Vangelo. Anzitutto questo semplice esercizio ci fa capire chi siamo, cosa cerchiamo nella tua vita, quali sentimenti sono più preponderanti di altri, quali desideri animano il cuore, come consideriamo e ci rapportiamo con gli altri. In secondo luogo aiuta a dare un nome ai peccati che ingrigiscono il nostro quotidiano, a comprenderne la genesi, gli sviluppi, le possibili conseguenze…
Dare un nome al proprio peccato significa cominciare a prenderne le distanze, oggettivarlo, guardarlo con un occhio meno coinvolto! Significa prendere coscienza di chi siamo veramente!
Oggi, l’evangelista Matteo ha ceduto il passo a Giovanni, che, come sempre, più che una cronaca evangelica ci presenta una riflessione teologica. Siamo ai primi versetti, quasi subito dopo il grande Prologo proclamato il giorno di Natale. Qui il Battista racconta come si è svolto il battesimo di Gesù nel Giordano ed esordisce chiamando Cristo l’“Agnello che toglie il peccato del mondo”! Il grande profeta, figlio di Elisabetta e Zaccaria, non poteva trovare titolo più azzeccato per Gesù se non quello dell’agnello. Questo animale, tenero e mansueto, nel culto ebraico era utilizzato come sacrificio pasquale nel ricordo – “memoriale” - del passaggio dell’angelo della morte durante la notte dello stermino dei primogeniti d’Egitto. Il sangue sugli stipiti delle porte avrebbe fermato la mano vendicatrice del messo di Dio, così come il sangue di Cristo sulla croce avrebbe cancellato definitivamente la storia di disobbedienza e di morte iniziata con il peccato dei progenitori!
Nella versione originale l’espressione del Battista suona così: “Ecco l’Agnello di Dio che si carica del peccato del mondo!”. Un’immagine grandiosa: entrando nel Giordano per farsi battezzare è come se Gesù raccogliesse tutto il male che gli uomini vi hanno lasciato, come se lo caricasse sulle proprie spalle per farlo salire con lui sulla Croce, l’albero dell’obbedienza, dell’amore che si sacrifica, del bene che vince il male!
E cos’è questo peccato del mondo, radice di ogni peccato, se non appunto l’orgoglio? La pretesa assurda di prendere il posto di Dio, di fare a meno di lui?
Orgoglio
radice di tutti i mali,
arrogante presunzione,
vorace bocca che tutto macina,
persino il cuore
di chi si illude di guadagnare a sé il mondo,
umiliando gli altri,
bestemmiando Dio!
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