Quando l'America rubava l'arte italiana, e pagava
Sulle due sponde opposte degli Stati Uniti, da New York a Los Angeles, c’è un’enorme pezzo di storia dell’arte italiana sparpagliato in una preziosa serie di collezioni privatissime divenute oggi di pubblica fruizione.
Ricordo benissimo che quando nel 2005 vidi per la prima volta il Getty Center di Los Angeles rimasi impressionato due volte: la prima per l’incredibile struttura che ospita il museo, una specie di Enterprise di marmo bianco intarsiata da splendidi giardini irrigati da ruscelli e fontane zen, sdraiata lungo una intera collina a picco su uno dei tanti canions che fanno da spina dorsale alla città più disconnessa d’occidente. Pareva veramente di trovarsi in una città del futuro su di un pianeta perfetto. L’altra cosa che mi lasciò veramente basito, ma in negativo, fu la incredibile presenza di pale d’altare trecentesche e dipinti rinascimentali, rigorosamente italiani, che ornavano alcune sale dell’astronave marmorea. Mi domandai come fosse mai stato possibile che ce ne fossimo privati e che fossero finiti sulle rive del pacifico, dove veramente nulla hanno a che vedere né con le strutture che le ospitano né con l’America in verità. A dire il vero pensai proprio che le avessero bellamente rubate i “liberatori” americani nel ‘45, per un vecchio vizio che hanno sempre i vincitori, che è portarsi a casa delle spoglie. In Italia lo hanno fatto proprio tutti, francesi, spagnoli, inglesi, tedeschi. E adesso lo fanno i cinesi e gli arabi, solo che invece di rubarle le comprano e spesso le lasciano qui, proprio come fanno con le nostre aziende e i nostri palazzi.
Ma il caso americano è abbastanza unico, e merita di essere raccontato. Gli americani diventarono scandalosamente ricchi dagli anni ’20 in poi, ed iniziarono allora a cercare anche una qualche nobilitazione culturale, a imitazione di quanto avevano fatto i loro padrini inglesi dal ‘700 fino all’epoca vittoriana, collezionando oggetti d’arte italiani, di qualunque tipo ed epoca: vasi, statue, mobili, oggetti, quadri. Inoltre, la legislazione americana iniziò ad agevolare e spesso proprio a incentivare queste velleità collezionistiche: i grandi magnati americani potevano costituire delle fondazioni, i cosiddetti “Trust”, in cui si potevano far confluire oggetti d’arte comperati al posto di pagare le tasse. Un sistema geniale attraverso il quale lo Stato americano portava entro i propri confini migliaia di opere d’arte comperate dai propri magnati che invece di vedere i propri soldi portati via dalle tasse li vedevano trasformarsi in splendide opere d’arte. Unica condizione: ciò che entrava in un Trust non poteva più essere toccato, il padrone non era il riccastro ma la fondazione che aveva creato. Ecco perché tutti queste collezioni private alla morte dei loro fondatori sono diventate dei musei, che portano proprio i loro nomi: la Walters a Baltimora, la Frick e la Lehman o la a New York, la Getty a Los Angeles e via così. Altre invece hanno finito per costituire i nuclei centrali delle grandi gallerie nazionali. Quella di Washington ad esempio è in buona parte nata dalle collezioni Mellon e Kress. Quest’ultima in particolare merita un accenno, perché ci consente un excursus su ciò che accadeva in Italia in quegli stessi anni a cavallo della seconda guerra mondiale. Samuel Kress era un minatore che accumulò una incredibile ricchezza aprendo delle catene di piccoli bazars a prezzi minimi. E come tutti gli uomini che ottengono tutto il denaro che si possa immaginare, cercava un po' di gloria, e qualcosa che possibilmente gli sopravvivesse. E come lui moltissimi altri milionari americani.
Dall’altra parte dell’Oceano in Italia, ombelico mondiale dell’arte universale, succedeva esattamente il contrario: i discendenti di quei condottieri e nobili italiani che avevano per secoli commissionato a decine di artisti centinaia di opere per accrescere il loro prestigio e consegnarlo alla storia, si trovavano costretti a vendere queste opere esattamente per le ragioni opposte a quelle americane: mantenere il proprio stile di vita e sfuggire ad una legislazione che andava in tutt’altra direzione. Giovanni Gentile, illuminato benchè fascista ministro della cultura, decise nel 1938 che era tempo che le opere d’arte di importanza pubblica e nazionale uscissero dai palazzi nobiliari e venissero adeguatamente tutelate e resi accessibili. Questa legislazione fu ripresa nel 1948 dal governo repubblicano, finendo per costringere moltissimi proprietari a svendere le opere delle proprie collezioni ereditate per sfuggire alle enormi spese assicurative, conservative ed espositive. E poiché lo Stato italiano, benchè avesse diritto di prelazione, non poteva acquistare che pochissime opere, entrano in scena alcune figure centrali del rapporto tra il mondo dei ricchissimi anglo-americani e quello degli ereditieri italiani: figure divenute leggendarie nel mercato e nella storia dell’arte come Bernard Berenson, Roberto Longhi e Alessandro Contini Bonacossi. Straordinari conoscitori dell’arte italiana, veri e propri codificatori della sua storia, ma anche abilissimi mercanti e formidabili intrattenitori di rapporti internazionali. Berenson viveva come un re in esilio nella splendida villa fiorentina de I Tatti, ospitando re regine e star del cinema, entrando in rapporto con tutte le nobili famiglie toscane i cui capolavori arrivavano ai ricchi americani attraverso mercanti d’oltreoceano come il leggendario Georges Wildenstein, di cui Berenson era il consigliere ed esperto fidatissimo.
Basti pensare che Contini Bonacossi, venuto a spere della ricchezza di Samuel Kress di cui abbiamo scritto, per tre anni di fila si fece prenotare la cabina di fianco a quella del Kress sul transatlantico che lo portava in vacanza, divenendone così prima amico, poi confidente e infine mercante: Contini finì per vendere a Kress più di 2.000 opere d’arte italiane che oggi sono appunto alla National Gallery di Washington. E che non sono più in Italia. E forse stanno meglio là visto che qui starebbero in qualche deposito dimenticate...
Spesso ci lamentiamo con indolenza e rimpianto di quello che i napoleonici o i vittoriani o i nazisti ci hanno “rubato” nei secoli passati, e ci sembra invece che in qualche modo queste collezioni americane ci abbiano dato un meritato palcoscenico nel paese più importante del mondo. Ma anche la Francia di Napoleone e l’Inghilterra vittoriana o la Germania hitleriana erano i paesi più importanti del mondo, e volevano un pezzo d’Italia in casa propria.
In fondo, o pagando o “rubando”, resta il fatto che tutti, quando diventano ricchi e potenti, vogliono un pezzo di Italia da mostrare al mondo.
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
(la foto del professor Martelli è di Irina Mattioli)
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