Quel Dio proiezione delle nostre frustrazioni
Accostarsi alla parabola del Figlio prodigo provoca sempre delle vertigini. La si può leggere e rileggere un’infinità di volta, ma la disarmante bontà e la pazienza infinita del padre provocano sempre incanto e commozione. Ha due figli, che vivono nella sua casa, condividono le sue ricchezze e il suo lavoro, ma scalpitano perché, in modi diversi, esigono il proprio spazio di libertà.
Il primo se ne vuole andare, scoprire il mondo, fare esperienze di vita. Chiede la parte della sua eredità anche se il padre non è deceduto: le consuetudini del tempo lo permetteva e lui va fino in fondo, senza pietà. Pretendendo la propria parte è come se avesse dichiarato morto e sepolto il genitore. Quale dolore deve avere provato quel padre: non solo veder partire il proprio figlio per luoghi sconosciuti, verso un futuro incerto e pericoloso, ma anche sentirsi dire: “per me tu non esisti più”. Ancora una volta, come spesso accade sul palcoscenico della storia, il figlio “uccide” il padre per potersi scrollare di dosso ogni dovere, ogni legame, ogni passato e potersi così godere la vita in piena totale libertà.
“Ed allora sognai altre vite/ migliaia di vite, pellegrino/ di strade interminabili. Allora/ mi adornai di fiori e di canti./ E feci di me una riviera,/ ove le più dolci creature/ si davan convegno. E tutti chiamai/ a danza i desideri; e le stagioni/ giovani e le notti candide accolsero/ le mie confidenze. E, novello prodigo, ho dato fondo alla mia eredità”. Il tormentato padre David Maria Turoldo in questi versi si immedesima in questo figlio snaturato che sperpera non solo i soldi paterni, ma la dignità, che mette in gioco la propria libertà per qualche piacere fugace, per qualche entusiasmo passeggero, per un poco di adrenalina che sale quando i dadi saltano sul tavolaccio di una maleodorante osteria.
Alla fine, come Adamo dopo aver mangiato del frutto dell’albero proibito, il figlio si ritrova solo, nudo e disarmato. Non sa dove sbattere la testa, ha fame! È fuggito per trovare la libertà e si è ritrovato più schiavo di prima, impantanato e sconfitto dai vizi, dall’idolatria del godimento fine a sé stesso, da una esistenza ripiegata solo sul presente, alla mercé di un datore di lavoro che non gli permette di mangiare nemmeno il cibo destinato ai porci.
Allora si ricorda della sua casa. E torna! Non è pentito, si trova nel bisogno e l’unica porta che sa aperta è quella dove è nato e vissuto. Se davvero si fosse pentito non avrebbe pensato di chiedere al padre di trattarlo come uno dei suoi servi, ma si sarebbe ripresentato come un figlio! Torna non per invocare il perdono, ma per sedare i morsi della fame. Non torna dal padre, ma dal padrone!
Ma essere figlio non è questione di merito: è un dato di fatto. Uno può anche abdicare alla propria figliolanza, ma non può pretendere che il padre si dimentichi di lui! Ci si può anche “sbattezzare”, ma non si può sfuggire dall’amore di Dio…
E infatti il padre, “vedendolo da lontano”, gli corre incontro e nemmeno ascolta la filastrocca imparata a memoria: ciò che conta è che sia tornato, che abbia capito, cioè, che la sua casa è un luogo sicuro, dove poter ritrovare la propria dignità e la propria dimensione di figlio. Non si è pentito? Non importa! L’importante che sia tornato a casa, in questo porto sicuro avrò modo di ripensare ciò che ha vissuto e magari, assaporando l’affetto incondizionato del padre, troverà il coraggio di chiedere perdono!
L’altro figlio, il maggiore, è ancora più meschino, perché almeno il più giovane ha avuto il coraggio di manifestare la propria inquietudine e di fare una scelta chiara. Lui no, è rimasto in casa, ma con sofferenza, rimpiangendo una libertà che non poteva avere, uno spazio di azione che gli era precluso. Entrambi i figli peccano di presunzione, ma anche di superficialità perché se davvero avessero conosciuto il loro padre e l’amore e la misericordia che animano il suo cuore, non si sarebbero ribellati, ma avrebbero gustato la libertà che regnava in quella casa. A volte, anche noi, ci lamentiamo di un Dio che non è reale, ma è solo la proiezione delle nostre idee o peggio ancora delle nostre frustrazioni. Se davvero andassimo alla ricerca del suo volto, quello vero, rimarremmo incantati da tanta bellezza!
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