Quel dolore atavico che affligge l'uomo
L’adolescenza è la stagione umana più difficile, è caratterizzata da contraddizioni, tensioni represse, spinte all’autonomia a volte rabbiose e sconsiderate, ma è anche tra le più feconde, ricca di sogni, slanci generosi, desideri ambiziosi, aspirazioni che si nutrono di infinito.
L’adolescenza è come un nuovo parto, un venire alla luce per la seconda volta: si lascia la mano del proprio genitore per spiccare il volo, verso una nuova vita segnata dall’indipendenza e dalla responsabilità.
Come ogni parto c’è, però, un dolore da gestire. Il dolore della partoriente ha caratteristiche uniche in natura: è un dolore che non è sintomo di una patologia, ma segnale del normale, naturale progredire della fisiologia.
Il dolore è chiaramente fastidioso, ma in genere è un valido strumento protettivo del nostro organismo, utile per avvertirci della presenza di danni, anche piccoli, che potrebbero altrimenti passare inosservati e peggiorare. Il fatto che la natura, in millenni di selezione, abbia deciso di lasciare il dolore all’interno del parto, sembra volercene far ricordare un possibile valore. Oggi sappiamo che la funzione del dolore nel travaglio è quella di guidare la donna alla ricerca del percorso di parto più funzionale: la posizione che risulta meno dolorosa per la donna è infatti anche sempre quella più utile al progredire corretto del travaglio, quella che aiuta l’impegno della testa del bambino, quella che favorisce la creazione di spazi idonei.
Il dolore, la sofferenza, il disagio spesso accompagnano certi passaggi esistenziali: un adulto che diventa anziano deve gestire un corpo che non è più reattivo e una mente che non è più lucida come un tempo. La scoperta di nuovi limiti conduce ad un senso di avvilimento e di sconfitta che può trasformarsi in depressione cronica o, viceversa, in coraggioso ripensamento di sé stessi.
Un dolore simile lo prova un fanciullo che approda all’adolescenza: il corpo cambia rapidamente, l’umore diventa sempre più instabile, iniziano ad affiorare sentimenti nuovi, mai provati prima, monta una certa insofferenza alle regole, e si avverte un crescente desiderio di libertà. C’è una insicurezza di fondo e una potente ricerca di “pienezza” che possono essere lenite da una forte esperienza di amore e di senso o acuite dalla solitudine, dalla noia, da un nichilismo esistenziale. Nel primo caso l’adolescente è accompagnato dal mondo adulto a nutrirsi di bellezza, che è il volto affascinante e seduttivo della verità (pulchritudo est veritatis splendor), nel secondo caso l’adolescente, lasciato in balia di se stesso, trasforma il “dolore del cambiamento” in rabbia, in ribellione: la violenza prende il sopravvento sull’amore, la ricerca dello sballo schiaccia l’apertura all’infinito, i continui tentativi di andare “oltre il limite” diventano il facile surrogato a quella chiamata al compimento di sé che è il fine ultimo dell’uomo.
La violenza non è altro che un grido disperato di aiuto! È come se l’adolescente esclamasse: “io ci sono. Esisto! Non mi basta un telefonino per passare il tempo o un motorino truccato per provare l’ebbrezza della velocità. Non mi basta usare una ragazza per sfogare le mie energie represse. Ho bisogno di sentirmi amato, ascoltato. Ho bisogno di sapere che servo a qualcosa, che conto qualcosa! Che sono unico ed irripetibile”. Con la loro violenza è come se i ragazzi ci accusassero: “questo mondo che voi adulti avete costruito, così tanto conformista quanto artificiale, a noi ci va stretto!”.
Sfogliando il giornale si resta sempre più basiti di fronte a certi fatti di cronaca: baby gang che si affrontano in pieno giorno in piazze affollate tra lo sguardo stupito e irritato dei passanti, comitive che dopo una grigliata clandestina in cascine abbandonate non trovano di meglio che distruggere tutto quelli che capita loro a tiro, giovanotti della società bene che si sbizzarriscono a filmare le loro prodezze sessuali senza il minimo pudore… Figli di padri e madri incapaci di aiutarli ad affacciarsi al mondo con stupore, con passione, con gratuità, con umiltà… con delicatezza. Educare significa aiutare l’altro a tirare fuori il meglio di sé, a scoprirsi parte di un tutto che va accolto e migliorato costantemente, a non rintanarsi nel presente, ma a guardare al futuro con curiosità e occhi di sfida, ad intendere il lavoro non come una semplice mezzo di sussistenza, ma come la realizzazione piena di sé stessi, come il proprio contributo alla costruzione di un mondo più umano, più fraterno, più prospero. Educare è dare quegli strumenti che permettano all’altro di esprimere al meglio la propria umanità.
Quest’oggi in tutta la Chiesa si festeggia la giornata mondiale delle vocazioni. Il cristiano sa che Dio ha inscritto nel proprio cuore un progetto che solo se pienamente realizzato porterà alla felicità vera e quel senso di compimento che è il traguardo, il porto sospirato di ogni individuo. Paradigmatica è l’esperienza di Samuel Piermarini, 28 anni, che proprio in questa domenica 25 aprile, riceve l’ordinazione presbiterale da papa Francesco nella basilica di S. Pietro. Il suo futuro era già segnato – una sicura carriera come portiere della Roma -, ma quel dolore, quell’incompiutezza che mordeva il suo cuore e che lo spingeva ad anelare ad una pienezza, lo ha portato a rifiutare l’ingaggio e a scegliere la strada di una donazione piena a Dio e agli altri. Quel dolore si è trasformato in dono di sé. Dio ci guarisce dalla “sofferenza esistenziale” nel momento in cui non ci lasciamo sopraffare da essa, quando smettiamo di pensare di essere al centro del mondo.
La migliore medicina è donare, uscire da sé stessi, servire gli altri con entusiasmo e dedizione. Donare libera dal circolo vizioso del proprio io, sblocca il cuore e lo apre a ricevere: se ho bisogno d’amore non devo fare altro che amare! Il mettersi al servizio dell’altro è il miglior analgesico di questo dolore atavico che affligge l’uomo.
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