Riconoscersi pecorelle smarrite
Chissà perché quando leggiamo la parabola della pecorella smarrita ci mettiamo sempre dalla parte giusta, ovvero ci immedesimiamo con i novantanove ovini che, diligentemente, stazionano tutti insieme e che mai si sognerebbero di avventurarsi per strade sconosciute allontanandosi dal loro pastore. L’animale disobbediente è sempre identificato con il “lontano”, con chi ha preso le distanze dalla comunità per mollezza, pigrizia o ignavia, con chi ha sbattuto la porta perché desideroso di assaporare una libertà sconosciuta nella Chiesa, con chi ha preferito una esistenza segnata dal vizio rispetto ad una vita colma di virtù. I ribelli, i peccatori, i disonesti, gli erranti sono sempre gli altri! Quante volte ci è capitato di sentire un’omelia particolarmente sferzante sull’amore per il prossimo e sul perdono e di aver sperato che quelle parole arrivassero dirette alle orecchie della cognata, della vicina di casa, della volontaria del bar dell’oratorio sedute qualche banco avanti!
Gesù, polemizzando continuamente con scribi e farisei, vuole metterci in guardia da uno dei peccati più gravi e più dannosi per la vita spirituale: la presunzione di sentirsi giusti! Confesso che quando qualcuno viene a confessarsi e, candidamente, ammette di non avere grandi peccati – “Cosa vuole che le dica reverendo, ucciso non ho ucciso, rubato non ho rubato…” – un po’ mi ribolle il sangue. Come se tutta l’esperienza cristiana si limitasse all’omicidio e al ladrocinio. A parte che su quest’ultimo peccato potremmo aprire un capitolo enorme perché rubare significa anche evadere in tutto o in parte le tasse, non farsi fare la fattura dell’artigiano perché non pagare l’IVA o, come dicevano i Padri della Chiesa – che certamente non possiamo tacciare di comunismo – non donare il proprio superfluo a chi non ha nemmeno il necessario. In ogni caso l’esperienza cristiana è molto altro e anche i cosiddetti “peccati veniali” non vanno presi alla leggera perché contribuiscano a infiacchire il cuore, impediscono di spiccare il volo verso gli orizzonti infiniti della santità, rendono grigia e insignificante la quotidianità, fanno viaggiare l’anima a marcia ridotta! A Satana piacciono tanto i peccatori, ma anche i mediocri, i tiepidi, chi ama fare sempre compromessi, chi minimizza o ridicolizza la radicalità del Vangelo, chi prende sempre sotto gamba l’invito alla conversione. Ci si può staccare dal gregge anche senza allontanarsi troppo!
Purtroppo chi presume di essere nel giusto, non si rende conto che sta già cadendo in un peccato molto grave: la superbia! Ma dietro si nasconde anche una profonda mancanza di fede. Più una persona è vicina al Signore, più fa esperienza del suo amore sconfinato e meraviglioso, più palpita con il cuore di Dio e più sente la propria indegnità e fragilità, quella lontananza dall’ideale divino! C’erano santi che si confessano tutti i giorni perché di fronte allo straordinario amore di Dio anche la più piccola “macchia” era per loro una ferita dolorosissima, un affronto alla benevolenza celeste! San Carlo Borromeo, che non era certamente incline alle logiche mondane, nelle sue interminabili visite pastorali si portava appresso il confessore per poter godere sempre della misericordia divina. D’altra parte non è forse vero che più avviciniamo la nostra mano ad una fonte di luce e più è marcata l’ombra che proietta e più ci allontaniamo da essa e più l’ombra diventa evanescente? E così è con l’amore di Dio, più ci accostiamo ad esso e più la nostra esistenza appare sbiadita, inadeguata, smorta! Il calore di quella fiamma d’amore ci fa anelare fortemente quella nostalgia di perfezione che è felicità pura!
Parlavamo di quell’atteggiamento di supponenza tipico dei farisei: ebbene, oltre a rivelare una lontananza sostanziale da Dio e dal suo mistero, esso comporta anche una grave conseguenza: non fa gustare la gioia di sentirsi amati e perdonati da Dio. Più siamo in sintonia con Dio, più sentiamo mordere il peccato e più rimaniamo meravigliati, stupiti, di quanto buono sia il Signore che non smette mai di perdonarci, di ridarci quella dignità che avevamo calpestato con le nostre pretese di autosufficienza.
Interessante nelle parabole della misericordia di questa domenica è che né il pastore né il padre puniscono o rimproverino rispettivamente la pecora o i figli. Il primo addirittura se la carica sulle spalle e tutto contento va a condividere la sua gioia con gli altri, il secondo si preoccupa che la sua progenie si goda la festa offrendo ciò che di meglio lui può offrire: il vitello grasso.
Dio ci converte non minacciandoci castighi o la dannazione infernale – che comunque resta una possibilità per l’uomo in quanto libero di autodeterminarsi! -, ma “investendoci” con il suo continuo perdono. Questo suo amore smisurato che non conta mai le volte in cui cadiamo nel peccato, che continuamente ci rialza dal fango della strada, che incessantemente ci ripulisce dal sudiciume del male, dovrebbe essere la molla che ci fa davvero cambiare prospettiva e farci correre verso il Padre misericordioso.
Necessario, però, è riconoscersi pecorelle smarrite, perché se presumiamo di essere sempre tra quelle fedeli non potremo mai assaporare il calore e la forza dell’abbraccio paterno e vivremo sempre nell’illusione di una vita tanto perfetta quanto banale.
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