San Tommaso, incredulo o esigente?
Vorrei spezzare una lancia a favore di San Tommaso, l’apostolo celebre per la sua incredulità e per la sua sfacciataggine nel pretendere di mettere il dito nel segno dei chiodi e la mano nel costato del Cristo Risorto. Questo uomo, chiamato anche Didimo, è il protagonista di questa seconda domenica di Pasqua o della Divina Misericordia.
La sera stessa del giorno della Risurrezione, i discepoli erano riuniti nel Cenacolo, ancora terrorizzati per la morte del loro maestro, timorosi per le reazioni dei giudei e confusi per la tomba trovata vuota e l’apparizione di Gesù a Maria di Magdala. Non erano sprangate solo le porte di quella sala al piano superiore dove Cristo aveva spezzato il pane e versato il vino, ma anche quelle del loro cuore: la paura blocca, atterrisce, prende il sopravvento soffocando la speranza. È ciò che sta accadendo anche a noi, dopo un anno di pandemia che ci ha immobilizzati, non solo materialmente, ma soprattutto psicologicamente e spiritualmente. Ha perfettamente ragione mons. Mario Delpini, arcivescovo di Milano e Metropolita della Chiesa lombarda, che in una intervista di qualche giorno fa sul Corriere della Sera ha affermato: «Se il virus occupa tutti i discorsi non si riesce a parlare d’altro. Quando diremo le parole belle, buone, che svelano il senso delle cose? Se il tempo è tutto dedicato alle cautele, a inseguire le informazioni, quando troveremo il tempo per pensare, per pregare, per coltivare gli affetti e per praticare la carità? Se l’animo è occupato dalla paura e agitato, dove troverà dimora la speranza? Se uomini e donne vivono senza riconoscere di essere creature di Dio, amate e salvate, come sarà possibile che la vicenda umana diventi “divina commedia”?». E modestamente aggiungo: è da sapienti riporre tutta la nostra speranza in un vaccino? Saranno davvero questi farmaci a salverà la nostra società? O sarà ancora più necessario immunizzarci dalla disperazione di una vita senza un orizzonte di senso, da un individualismo esasperato che sta minando irrimediabilmente la nostra società, da un narcisismo e da un edonismo che rinchiudono l’uomo in una immaturità adolescenziale?
Eppure le porte chiuse del Cenacolo come quelle del cuore dei discepoli non impediscono a Cristo di “stare in mezzo a loro”, di mostrarsi vivo, anche se con i segni della passione impressi sul suo corpo glorioso! Segni che dicono che la sua passione continuerà fino a quando ci saranno uomini e donne che soffrono per un male insidioso o che sono schiacciati nella loro dignità!
Due sono i doni che il Risorto consegna ai suoi apostoli: la pace e lo Spirito. La pace, cioè la fine dei conflitti che il peccato fa deflagrare: con Dio considerato un antagonista, con i fratelli giudicati come fardelli, con il proprio cuore percepito come estraneo e lontano. E poi lo Spirito, l’amore di Dio infuso nell’animo di ciascuno, la scintilla del divino che rende l’uomo contemporaneo al suo Signore, sempre.
A questo incontro prodigioso Tommaso è assente e solo quando Gesù scompare egli rientra nel Cenacolo. Ma la testimonianza degli altri apostoli - “Abbiamo visto il Signore” - non lo convince. Non è che Tommaso invece di essere scettico è esigente? Non è che Tommaso non crede alle parole di Pietro e degli altri perché i loro volti, i loro occhi, il tono della loro voce tradiscono ancora paura e confusione? Immagino le parole dell’apostolo: “Ma come, voi dite che il Signore è risorto e siete ancora chiusi qui dentro, in questa stanza dove manca l’aria, dove non filtra un raggio di luce? Se davvero avete incontrato Gesù dove è la vostra gioia, il vostro entusiasmo, il vostro coraggio? Perché non avete spalancato le porte e le finestre e non avete urlato che il Maestro è risorto?”. Mi piace pensare che Tommaso non crede alla Risurrezione di Gesù perché non vede i segni della Risurrezione nei volti e nella vita dei suoi amici! Se davvero hanno visto Cristo, perché la loro esistenza non è cambiata?
È un po’ quello che succede anche a noi cristiani del terzo millennio! Dove i lontani e gli increduli possono trovare le prove concrete che Cristo è risorto, che è vivo e che cammina accanto agli uomini di oggi? In una comunità gioiosa, entusiasta, coraggiosa, accogliente, capace di contagiare con una speranza certa, con una fraternità senza infingimenti e lontana da ogni giudizio e condanna, con una liturgia semplice, ma nobile che parla alla vita, con una carità senza compromessi, con un annuncio di salvezza che precede sempre l’imperativo morale. Una comunità che non chiede il certificato di buona condotta, ma che allo stesso tempo indirizza, con chiarezza ed amore alla verità, verso una vita bella, buona, ispirata unicamente al Vangelo di Cristo, senza scoloriture o compromessi mondani.
Se un non credente bussasse alle porte delle nostre parrocchie che cosa troverebbe? Sguardi sospettosi e interrogatori, celebrazioni scialbe e incolore, la ricorsa agli ultimi posti della chiesa, una fede formale e tradizionali senza attrattiva che non intacca la vita, la fatica di costruire relazioni vere che si fondano sulla stima reciproca, sulla riconciliazione e il perdono, sulla costruzione del bene comune.
Insomma i segni della risurrezione il mondo li può trovare solo negli sguardi e nella vita di cristiani appassionati e coraggiosi e di comunità unite e gioiose che guardano al futuro sapendo che i fili della storia, alla fine, li muove solo il Signore!
Quando sento qualche incredulo dire “Ma dov’è Dio? Perché non ci parla? Perché resta rinchiuso nel suo Cielo e non si fa vedere qui sulla terra?”, mi viene quasi una fitta al cuore, perché in realtà le accusa mosse contro Dio, sono mosse contro di me, contro noi cristiani. Con la sua risurrezione e ascensione al Cielo, Gesù ci ha affidato il compito di essere il segno della sua presenza nel mondo. Se l’uomo d’oggi non percepisce la presenza di Dio nella storia è perché i cristiani non sono capaci di renderlo vivo e significativo. E quando parlo di cristiani intendo tutti, non solo preti, suore e missionari, ma ogni battezzato che si sente afferrato da Cristo e dalla sua Parola.
C’è un testo eloquente del XIV secolo che anche il nostro vescovo Antonio ha utilizzato come incipit della sua ultima lettera pastorale e che ben riassume queste povere riflessioni:
Cristo non ha mani
ha soltanto le nostre mani
per fare oggi il suo lavoro.
Cristo non ha piedi
ha soltanto i nostri piedi
per guidare gli uomini
sui suoi sentieri.
Cristo non ha labbra
ha soltanto le nostre labbra
per raccontare di sé agli uomini di oggi.
Cristo non ha mezzi
ha soltanto il nostro aiuto
per condurre gli uomini a sé oggi.
Noi siamo l’unica Bibbia
che i popoli leggono ancora
siamo l’ultimo messaggio di Dio
scritto in opere e parole.
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