12 luglio 2021

Servizi sociali, tutto sulle spalle dei comuni

Credo che una premessa sia necessaria. Rispetto ad un passato neanche troppo lontano i servizi sociali comunali hanno fatto il cosiddetto “salto di qualità”, nel senso che hanno conosciuto una capillare diffusione in tutti i comuni italiani,  anche in quelli meno “virtuosi”, e sono diventati espressione di un livello professionale sicuramente più elevato di quello precedente, incentrato esclusivamente  sul ruolo dell’assessore delegato e della commissione comunale assistenza, non sempre all’altezza dei delicati  problemi da affrontare. 

Ciò detto, a me sembra che il modello organizzativo raggiunto soffra di eccessiva autoregolamentazione, che limita le potenzialità del servizio e ne inibisce l’ulteriore crescita. Voglio dire che la eccessiva burocratizzazione del sistema di accesso al servizio, se da una parte ha contribuito a superare i rischi  di clientelismo (tipici delle commissioni comunali di un tempo) dall’altro ha ingenerato una selezione preordinata dei bisogni e dei diritti, che a me non sembra il modo migliore di approcciare i temi delicati, ognuno con la propria storia, dell’assistenza pubblica.

Mi sono posto spesso questa domanda: l’azienda pubblica che agisce sul territorio per conto dei comuni , e da questi viene finanziata, risponde esclusivamente a criteri aziendali oppure è in grado di condividere un percorso con le autorità comunali, che possa essere diverso a seconda dei casi affrontati? Non è un a domanda retorica: la risposta non è scontata.

Io credo che il servizio sociale debba collocarsi nel solco della condivisione, ma spesso ho constatato che sta altrove, imbrigliato dalle regole che il sistema si è dato,  normalmente scritte da chi “gestisce l’azienda”, raramente contestate da chi dovrebbe esercitare il controllo, o quantomeno tentare un contraddittorio, con l’azienda di riferimento.

Non vado oltre con la premessa, ma ci tengo a precisare che l’eccesso di delega da parte dei comuni, nel nostro caso a Comuntià Sociale Cremasca, non è funzionale ai servizi sociali, la cui finalità resta quella di intercettare le difficoltà delle persone ed elaborare progetti individuali commisurati ai bisogni emersi. In buona sostanza,dovrebbero essere i comuni ad indirizzare Comuntià Sociale Ccemasca, non viceversa. Questa è, a mio avviso,  la prima criticità organizzativa che andrebbe chiarita e possibilmente risolta a livello territoriale. 

Per quanto concerne invece le difficoltà pratiche che  i comuni, specie quelli piccoli, si trovano ad affrontare, la più evidente  credo sia quella concernente gli affidi, non solo dei minori, che possono rendersi necessari, anzi obbligati,  da provvedimenti di tipo giudiziario, da un giorno all’altro, senza alcun preavviso.

Gli affidi sono principalmente  generati da episodi di violenza di genere consumata in famiglia. Di norma è il marito che esercita violenza sulla moglie. Quando il caso emerge è la vittima che, per maggior sicurezza, viene allontanata dalla propria residenza, portandosi con sé i figli minori, se questi ci sono. Ma le cosiddette “case rifugio” servono solo per l’emergenza…per il “dopo denuncia”. 

In seguito le persone poste sotto tutela vengono trasferite in comunità o centri residenziali convenzionati, che hanno però costi piuttosto elevati (anche 80/100 euro pro capite al giorno), posti a carico del comune di residenza, a prescindere dalle sue dimensioni, quindi dalle sue disponibilità di bilancio. 

Quando ciò accade, ed accade sempre più spesso,  il comune non può sottrarsi all’onere del pagamento: è obbligato ad ottemperare alle disposizioni dell’autorità giudiziaria che, è bene precisarlo, non hanno una scadenza prefissata.

Per spiegare meglio il concetto , richiamo una esperienza diretta che ho vissuto nel mio ultimo mandato da sindaco. Una signora è stata allontanata dal marito manesco, assieme ai suoi tre figli minori. Da un giorno all’altro il comune ha dovuto provvedere al pagamento  delle quattro rette di degenza, potendo far leva esclusivamente sulla compartecipazione solidale, attraverso Comuntà Sociale Cremasca, del 50% delle rette di soggiorno dei minori.

In quella circostanza cercai di rappresentare le enormi difficoltà affrontate dal mio comune ai vari rappresentanti degli enti interessati (ATS, ANCI, rete antiviolenza della provincia di Cremona, ecc.): tutti mi attestarono comprensione, ma la situazione non cambiò di una virgola.

Provai anche a seguire il percorso delle risorse statali, dedicate al tema specifico della violenza di genere: dallo Stato alla Regione, da Regione ad ATS, qualche briciola ai centri antiviolenza. Ai comuni interessati zero euro di compensazione. Ho appurato che il grosso delle risorse veniva drenato dal servizio sanitario e  probabilmente dirottato sulle spese generali, nonostante l’originaria destinazione specifica. Ricordo un’assemblea dei sindaci nel corso della quale un dirigente (?) dell’ATS, piuttosto contrariato dalla contestazione, mi promise che avrebbe fornito all’assemblea la documentazione attestante il corretto impiego delle risorse statali. Non mi risulta che lo abbia fatto. 

Ottenni anche, da Comuntià Sociale Cremasca,  l’impegno di una maggior condivisione del problema, ovvero di  portare dal 50 %al 70% la compartecipazione  al pagamento delle rette dei minori, ma l’impegno non venne mantenuto nell’immediato, non so se è stato  fatto in seguito.

Insomma, il quadro di riferimento è quello descritto e non si discosta molto da quello attinente all’affido dei minori maltrattati o abusati dai propri genitori. Certo, se l’affido viene fatto ad una famiglia i costi posti a carico dei comuni sono inferiori di quelli praticati dalle centri residenziali, o dalle comunità,  ma può anche capitare, come mi è capitato, che il minore non si adatti alla nuova situazione e necessiti quindi di interventi di sostegno di tipo psicologico, con costi posti a carico del comune di residenza, anziché  del sistema sanitario nazionale.

Volendo infine toccare un argomento di stretta attualità,  mi chiedo cosa abbia fatto il servizio sociale territoriale, nel corso della pandemia, per  tutelare al meglio i diritti delle persone più fragili, ovvero gli ospiti delle residenze sanitarie per anziani, isolati dai propri familiari da oltre un anno e mezzo,  per ragioni sicuramente plausibili ad inizio pandemia, molto meno nel prosieguo.. Anche in questo caso, le disposizioni del ministero della salute, molto restrittive all’inizio della diffusione del virus, si sono man mano allentate , in rapporto al miglioramento degli indici di diffusione.

Ma, prescindendo dalle disposizioni ministeriali, filtrate da altre disposizioni regionale ed infine da ulteriori “interpretazioni” delle ATS territoriali, ogni singola struttura ha poi fatto quello che ha voluto. Allo stato attuale, con tutti gli esercizi pubblici aperti (per non palare degli stadi) le visite dei parenti (immunizzati dai vaccini) agli ospiti delle RSA (immunizzati prima dei parenti) sono consentiti solo previo appuntamento settimanale, e la visita dura al massimo mezzora. Gli ospiti delle RSA non hanno voce per protestare, ma quello che subiscono è una sottrazione di diritti  che sconfina nel sadismo esercitato con disinvoltura dai dirigenti sanitari delle strutture, trincerati dietro i contenuti di “ordinanze ministeriali o regionali mai sufficientemente chiare”. 

Giovanni Calderara


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