1 novembre 2021

Servono risposte non un immaginario ritorno al passato

Historia magistra vitae: la storia ci è maestra di vita. La celebre frase, uscita nientemeno che dal repertorio di Cicerone più di duemila anni fa, ha cavalcato parecchi secoli per arrivare fino a noi sostanzialmente indenne e a buon diritto comparire in qualsiasi manuale che insegni i rudimenti della ricerca storica. Ma che, soprattutto, spieghi di quale utilità pratica possa essere un eccentrico sport che investe tempo e fatica nello studio di quel che non c’è più.

La risposta è ovviamente variata col variare delle epoche. Per secoli fu semplice e quasi meccanica: visto che i fatti della storia si ripetono, studiare il passato è utile per evitarne gli errori e capire in tempo cosa fare nel presente. Una specie di scaffale del farmacista in cui a ogni malanno corrisponde l’appropriato rimedio. Magari lo studio del passato ci fornisse la magica sfera di cristallo che prevede il futuro e ne spiana la strada trasformandola in un agevole rettilineo. Ma se questo gli è impossibile, può invece molto altro. Resta un prezioso repertorio di materiali di riflessione utili a farci intuire le sotterranee linee di tendenza e le probabilità evolutive di un presente che spesso ci appare come una nebulosa informe, indecifrabile e dunque ingovernabile. Che un clamoroso evento pandemico girasse da tempo sulle nostre teste era, per esempio, ampiamente noto. Era bastato mettere in fila una serie di elementi e trarne corrette conclusioni. Quel che non era possibile era superare gli invalicabili limiti di una generica ipotesi previsionale che è in grado di dire il ‘cosa’ ma non il chi, il quando, il dove o il come: tutte cose che è toccato a noi scoprire nelle drammatiche circostanze che sappiamo. Altrettanto può dirsi della conoscenza storica: ci rende più accorti e sensibili abitatori del presente, affina i nostri ricettori circa gli indizi che non sapremmo altrimenti decifrare e nemmeno cogliere ma non fornisce ricette pronte all’uso perché il rapporto fra passato e presente non replica mai i fenomeni in modo identico. Al massimo concede analogie. E meno male. Una vita da replicanti sarebbe una gran noia. Molto meglio uno spazio aperto al prezioso e rischioso gioco della libertà.

Tramontata dunque la semplicistica idea che la storia sia la paludata musa che ci obbliga a camminare con la testa rivolta all’indietro, il senso del suo perenne magistero si è trasferito su un più alto e maturo livello, rendendoci sempre più evidente il vitale ruolo che il suo sapere gioca nella costruzione di società autenticamente liberali e democratiche. E perché mai? Perché chi incontra la straordinaria ricchezza e varietà della passata esperienza umana, recente o remota, non ne esce mai a mani vuote. Confrontarsi con infinite diversità di ogni tipo, dalla sfera degli assetti materiali a quella più intima e suggestiva dei valori e dei sentimenti, ci costringe a prendere atto e ad accogliere la pluralità delle esperienze come decisiva dimensione della condizione umana. Ottimo sistema per abbassare la cresta al nostro Ego ed allenarlo alla convivenza con ‘l’altro da sé’, insostituibile palestra in cui costruire e affinare un equilibrato punto di vista sul mondo.

Ma c’è un’altra parola chiave: è la parola complessità. Non si viaggia impunemente nei territori del passato uscendone con gli stessi arroganti semplicismi con cui ci siamo entrati. La storia opera come un potente solvente su ogni pregiudizio ideologico e ci manda continuamente a ‘sbattere’ contro l’irriducibile complessità di ogni fenomeno. Fra le scienze è la più difficile perché ha per oggetto l’uomo, cioè la più complessa, affascinante e complicata delle invenzioni di madre Natura. Cancellare questa complessità per ridurla a banali schemi e a forme semplici, bianco e nero, bene e male, luce e tenebra non produce alcun incremento di conoscenza autentica del passato ma, tutt’al più, un pittoresco fumetto a tinte forti. Capita tuttavia che in alcuni delicati tornanti della vita di un Paese nemmeno il patrimonio acquisito della conoscenza storica riesca a svolgere fino in fondo il suo mestiere: guidare il transito del nostro rapporto col passato dal piano passionale e viscerale a un piano più razionale che lucidamente lo veda nel suo carico di bene e di male e, finalmente, decida di congedarsene per guardare al presente e al futuro. C’è dunque, come nel caso del Ventennio fascista, un ‘passato che non passa’ e che, pur ampiamente visitato e rivisitato dagli storici, ancora non ha trovato completa pacificazione nella coscienza collettiva. Sicché il corto circuito fra il nostro oggi e il nostro ieri è sempre dietro l’angolo. Ne ho fatto diretta esperienza in un recente episodio di cui non metterebbe conto parlare se non mi avesse indotta a più generali considerazioni sull’attuale stato d’animo del Paese e sui suoi nervi assai scossi.

A seguito di alcune considerazioni sulle violenze che agli inizi di ottobre hanno sconvolto la capitale -protagonisti esponenti della destra neofascista di Forza Nuova oggi finalmente in galera – mi sono trovata al centro di inattese reazioni. Esattamente opposte nei giudizi – favorevoli gli uni, critici gli altri – ma identiche nelle modalità indirette e ufficiose con cui mi hanno raggiunta. Consensi sussurrati in forma cautelosamente privata, come vivessimo nella Francia del Terrore e con una parola ci si giocasse una testa. E io che ingenuamente credevo di vivere in una collaudata democrazia mi ritrovo a osservare che poche cose la mortificano e indeboliscono quanto l’autocensura spontanea di chi, temendo anche la propria ombra, si astiene dal respirare a pieni polmoni le preziose libertà costate tanto care a chi le ha conquistate o riconquistate per noi. Ma altrettanto sconcerto mi ha prodotto la scandalizzata reazione di chi ha visto nel mio ribadire la natura complessa del fenomeno fascista e l’impossibilità storica di una sua ‘riedizione’, scontatissime verità, un retrogusto di assolutoria benevolenza quasi vicina all’apologia di Regime. Poveri noi.

Ruberò in questo caso un esempio alla comune pratica medica. Non c’è dubbio che una buona terapia dipenda principalmente da una buona diagnosi. E una buona diagnosi non si incolla meccanicamente sul paziente come un’etichetta ricavata da un generico repertorio di patologie. Un medico serio cuce la diagnosi addosso al paziente con precisione sartoriale dopo aver indagato scendendo nello specifico il quadro concreto delle sue condizioni. Di questo, per l’appunto, ha bisogno il Paese: di un’aggiornata diagnosi del suo complesso malessere. Questo mix di rabbie e insofferenze che improvvisamente esplode nelle nostre piazze cavalcando la protesta ‘no vax’ o ‘no green pass’ va osservato nell’eterogenea realtà delle sue componenti. Chi si avventura nella loro concreta esplorazione si imbatte in uno Zibaldone post ideologico contenente tutto e il contrario di tutto. Violenza neofascista incerta fra folklore e nostalgia autoritaria, no global, centri sociali, destra sovranista e sinistra antagonista…una maionese impazzita che miscela quel che resta di alcune culture politiche del Novecento non senza paradossali comicità involontarie. E’ il caso di un neofascismo che sposando la protesta anti green pass si ritrova ad attaccare il governo in quanto colpevole di ‘autoritarismo fascista’. Il che ci strapperebbe un sorriso se non sapessimo che dietro a questi vetrina di rabbia urlata e degenerata in violenza per colpa di spregiudicati arruffa popolo c’è la realtà più silenziosa, dignitosa e composta di un sofferente Paese, sfinito e impoverito, che attende dalla politica adeguate risposte.

Meglio concentrarsi su quelle che su un immaginario ritorno di fantasmi del passato.

 

 

vittorianozanolli.it

Ada Ferrari


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