Si può morire restando vivi
Nella sua Cronaca lo storico del XIII secolo, Salimbene de Adam, descrive il tragico esperimento che Federico II di Svevia mise in atto per rispondere ad una domanda particolarmente dibattuta tra i linguisti del tempo: qual è la lingua umana originaria? L’egiziano, l’ebraico, il frigio?
Il sovrano decise di far nutrire regolarmente un gruppo di neonati in assoluto silenzio: i piccoli dovevano essere toccati il meno possibile, solo per essere alimentati e lavati; guai alle nutrici che avessero pronunciato una parola di troppo. L’esperimento fallì miseramente perché i bambini morirono tutti.
Salimbene non amava particolarmente il monarca e può darsi che le conclusioni dell’esperimento non risultarono così tragiche come ci sono state tramandate, eppure alle stesse conclusioni giunse René Spitz, uno psicanalista viennese emigrato negli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale. Lo studioso prese in esame 91 bambini abbandonati in un orfanotrofio: anch’essi erano regolarmente nutriti ma con scarsi contatti interpersonali a causa della carenza di nutrici. I pargoli svilupparono una forte apatia, inespressività del volto, ritardo motorio e perdita della vista. Nelle loro culle si formò un piccolo avvallamento che li avvolgeva completamente, quasi fosse un abbraccio virtuale, ma che in realtà per molti fu la tomba. Il 37% di queste 91 creature, infatti, morì con i segni del marasma, una malattia provocata dalla carenza proteica tipica della denutrizione.
Esperimenti e osservazioni scientifiche che fanno rabbrividire, ma che dicono come l’uomo, per crescere, svilupparsi, trovare la propria identità abbia bisogno non solo di pane, ma anche di una carezza, di un bacio, di una voce che gli sussurri dolcemente “ti voglio bene”, di una mano che avvolga la sua… della promessa di essere condotto con amore nei primi passi dell’esistenza. Tutto ciò permette al neonato di affrontare la vita, il futuro, con sicurezza perché sa di essere accompagnato, perché sa che c’è qualcuno che lo aiuterà a discernere il bene e il male, e soprattutto c’è qualcuno che lo sosterrà nella ricerca del significato, del senso del vivere.
È quello che cerca di far capire Gesù ai giudei, i quali, dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, lo inseguono perché sperano di risolvere il problema dei pranzi e delle cene. Cristo non si arrabbia, anche se la folla vuole solo sfruttare i suoi “poteri”, ma cerca di aiutarla a capire che c’è un pane altrettanto più importante di quello terreno che acquieta i morsi di una fame ben peggiore di quella biologica, quella del cuore!
Perché si può morire restando vivi, perché si può morire anche con la pancia piena, con un conto in banca da sei zeri, con una macchina fuori serie che tutti ti invidiano, con un lavoro che ti permette di comandare decine di persone, con una famiglia serena e felice. Si può morire di benessere quando il benessere diventa l’unico orizzonte dell’esistenza, quando solo in esso si ripone le proprie sicurezze e i propri desideri più reconditi.
Non vi è mai capitato, anche quando tutto fila liscio, di sentire come un morso nello stomaco, come un senso di incompiutezza, di mancanza, di inquietudine? Ciò vuol dire che soddisfare i bisogni materiali non può bastare per essere felici! Siamo affamati di un cibo che ha il sapore dell’eternità. Un cibo che ci permette di relativizzare il mondo, con tutte le sue ansie, i suoi amori mercenari, le sue relazioni fittizie, la carriera costruita sulla schiena degli altri, la frenesia del fare (perché se non facciamo non siamo…), la corsa ai risultati, l’ambizione di essere sempre il primo, il più bello, il più interessante… il più cliccato. Un cibo che ti fa capire che sei prezioso, considerato e amato al di là dei podi conquistati, dei titoli acquisiti e della considerazione dei potenti!
Questo cibo che ti fa gustare il Cielo, che rivela la tua intima vocazione alle cose che non passano è soltanto Cristo! Solo Lui nutre la tua fame di infinito e ti permette di lasciare impronte di eternità nel presente della storia. È capitato a tanti Santi nel corso di questi 2000 anni di esperienza cristiana: uomini e donne che, disprezzando ciò che la logica del mondo esalta, hanno combattuto il Male che albergava in loro così da liberare la propria umanità indirizzandola verso l’amore. È un combattimento arduo: il peccato, infatti, non solo ci allontana da Dio e dai fratelli, ma anche da noi stessi, spegnendo le nostre energie positive, facendoci perdere fiducia nella nostra capacità di fare il bene, di improntare relazioni autentiche e gratuite, di perdonare sinceramente, di servire senza chiedere nulla in cambio, di riuscire a sconfiggere i vizi, le cattive inclinazioni… Eppure i Santi ci sono riusciti affidandosi non alle loro forze e capacità, ma soltanto a Cristo, alla sua Parola, al suo Spirito che scalda ciò che è gelido, drizza ciò che è sviato, sana ciò che sanguina… Si sono lasciati nutrire di Cielo!
Ha tremendamente ragione Papa Francesco quando mette in guardia la Chiesa dalla tentazione di trasformarsi, in maniera inconsapevole, ma reale in una ONG, in una multinazionale della carità. Ne “La grande bellezza” (2013), film grottesco ma tragicamente vero del regista Paolo Sorrentino, Il protagonista, lo scrittore Jep Gambardella (magistralmente interpretato da Tony Servillo) tenta più volte di avvicinare il cardinale Bellucci per un confronto spirituale, ma questi gli sfugge perché più portato alle ricette di cucina che spiega ai suoi interlocutori con grande afflato. E forse questa l’immagine che tanti laici hanno della Chiesa e dei suoi ministri? Una grande organizzazione che si impegna a fare del bene, a erogare servizi, a programmare attività pur belle e necessarie ma sempre così mondane? Una Chiesa che nella foga di dare il pane materiale (attività ludiche, aggregative, sociali…) non ha più il tempo e la forza di indicare il senso del vivere all’uomo, di dare quel pane di vita che permette di non morire pur restando vivi!
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