Siamo quello che desideriamo!
“Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. È una domanda capziosa quella che il maestro della legge rivolge a Gesù – Luca, infatti, annota che “si alzò per metterlo alla prova” -, eppure rivela un desiderio profondo di vita, di autenticità, di pienezza. Questo studioso della Torah avrebbe potuto interrogare Cristo su qualche cavillo della legge ebraica, sul culto, sulla purità… invece si sofferma su ciò che, probabilmente, gli sta più a cuore: la ricerca della felicità vera. Sì, perché, in fondo, con quel interrogativo, l’uomo sta chiedendo al Nazareno come può essere realmente felice, dove può trovare la sorgente della pienezza dell’esistenza, quel senso di compiutezza che gli fa dire che non sta vivendo invano e che tutto ha un senso e una meta.
Volesse il Cielo che sempre più cristiani rivolgessero domande del genere ai loro sacerdoti, che, cioè, imparassero, sul serio, a guardarsi dentro, a scavare nell’intimo della propria coscienza per capire a che punto sono della loro vita, che cosa stanno o vogliono realizzare, quali sono i desideri profondi che muovono le loro scelte e che costruiscono la loro personalità.
In fondo noi siamo quello che desideriamo!
Questo uomo della legge desidera non una felicità a buon prezzo o che si realizzi immediatamente – siamo tutti malati di presentismo, del motto “tutto e subito!” -, ma qualcosa che lo renda, per sempre, libero, contento, riconciliato con sé stesso e gli altri!
Nell’esperienza cristiana, infatti, la “vita eterna” non è qualcosa che “accadrà” dopo la morte, ma è già una realtà che il credente può sperimentare nell’oggi e che gli fa pregustare quella pace che è frutto della vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte. Chi ha incontrato Gesù e ha sperimentato la sua premura, la sua cura e la sua carezza non ha paura di nulla e sente di essere in perfetta armonia con il Creato e con gli altri e se anche incontra prove, fallimenti e delusioni non si lascia soffocare da essi perché l’amore di Dio è più grande di ogni cosa!
Torniamo al Vangelo: Gesù risponde con un’altra domanda – “che cosa sta scritto nella Legge?” – per fargli capire che Dio ha già dato tutte le risposte all’uomo: nella Sacra Scrittura, infatti, c’è la formula della felicità! E questa formula è semplice e consta di una sola parola: amare! Badate bene: non essere amato, ma amare! La seconda domanda del maestro sull’identità del prossimo permette a Cristo di raccontare la nota parabola del Buon Samaritano che custodisce in sé un messaggio chiaro: se vuoi essere “seriamente” felice impara a diventare prossimo di chi incontri lungo la strada! In sintesi: se cerchi l’amore, incomincia dunque ad amare! Se cerchi comprensione, inizia ad offrila! Se cerchi misericordia, donala per primo!
Questo per quanto riguarda il rapporto con i fratelli, perché se ci pensiamo bene il Vangelo ci assicura che Dio ci ha amati per primi, che lui per primo ci ha offerto la sua comprensione e, soprattutto, la sua misericordia.
Per ereditare la vita eterna, per guadagnare una felicità che nessuno potrà rubare, occorre dunque compiere un esodo da sé stessi, andare verso l’altro in pieno spirito di servizio, di vicinanza, di cura, di attenzione.
Perché il sacerdote e il levita non si fermano a soccorrere il malcapitato? Perché, nonostante la loro fede, i loro “gesti religiosi”, il loro rapporto con Dio non sono felici! Sono pieni di sospetti, di paure, di scrupolo cultuale che li allontana da tutto e da tutti. Il Samaritano, invece, si ferma perché dentro di sé coltiva questa felicità interiore e sa che essa si nutre di gesti di compassione, di pietà, di carità. Più usciamo da noi stessi, più ci liberiamo dalla tirannide del nostro io e più diventiamo liberi, leggeri, lieti: non avremo paura del giudizio degli altri, del tempo perso per aiutare chi è nella difficoltà, del coinvolgimento emotivo con le sofferenze e i dolori degli altri.
Per essere felici occorre, dunque, farsi continuamente prossimi di chi ci è accanto, esercitando quella “compassione” che è un atteggiamento basilare nel Cristianesimo. Oggi la “compassione” ha assunto un significato negativo e la si confonde con la commiserazione, con una pietà che si mescola al disprezzo… La compassione, invece, è ciò che ha sempre contraddistinto l’agire di Dio: vedendo l’uomo soffrire a causa del peccato Gesù ha voluto assumere la condizione umana per accogliere realmente e seriamente su di sé questa sofferenza, per dire all’uomo: “Voglio portarla insieme a te”. Compatire vuol dire non lasciare solo, condividere il dolore dell’altro affinché questo dolore sia il meno lancinante possibile, caricarsi sulle spalle una parte di sofferenza così che la persona sia un poco sollevata dal peso soffocante di un lutto, di una malattia, di un fallimento nei rapporti umani, di una caduta dal punto di vista morale.
Compatire significa non disdegnare di provare nella propria carne e nel proprio cuore, ciò che l’altro sta provando. Ne usciranno più rafforzati entrambi gli “attori”, sicuramente si sentiranno più uniti tra di loro, più fratelli. Non è questa pienezza di vita, di amore, di senso? Non è questa felicità?
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