8 ottobre 2023

Solo Dio libera la libertà!

Coltivare una vigna è impegnativo, per avere buoni frutti occorrono anni di lavoro, ci vuole cura, dedizione, amore. La vigna è un impianto stabile, occupa il terreno per generazioni, non è come un prato o un campo che annualmente possono essere destinati ad altre coltivazioni. Tra la vigna e il vignaiolo si instaura quasi un rapporto simbiotico. Per questo motivo l’Antico Testamento sovente utilizza l’immagine della vigna per raccontare la relazione esistente tra Dio e il suo popolo Israele.

La parabola di questa seconda domenica di ottobre racconta proprio di questo rapporto tormentato tra Dio e l’umanità. Già i primi versetti dicono la cura che questo “proprietario” mette nell’allestire questa vigna: solo la ricerca del terreno è un lavoro impegnativo, ma poi si parla di una siepe messa a protezione, di un frantoio e anche di una torre. Tutto è pronto perché sia coltivata e perché porti frutto.

Colpisce la fiducia estrema del padrone nei confronti dei contadini: ad essi consegna la sua proprietà e se va lontano. Egli si fida dei suoi sottoposti, non “ficca il naso” nel lavoro; c’è una sorta di rispetto profondo al limite dell’ingenuità. Eppure questo è il modo di agire di Dio: egli ha tanta stima dell’uomo da lasciarlo libero di percorrere la propria strada, in autonomia. Questo non vuol dire lasciarlo solo. Tutt’altro! La parabola parla di servi mandati a ritirare il raccolto: Dio ha fame dei frutti prodotti dall’uomo, cioè desidera ardentemente che l’uomo realizzi grandi progetti nel segno dell’amore e della libertà. Dietro a questa richiesta non c’è la pretesa di “tirare le somme”, di giudicare l’operato umano, ma c’è unicamente la speranza che l’uomo abbia trafficato i suoi “talenti”, si sia impegnato a rendere la propria vita più bella, più buona, più fraterna… E i servi, secondo gli esegeti, sono i profeti! Sono loro che in determinati periodi della storia richiamano Israele quando questi si trascina in una vita infruttuosa o brama di fare a meno di Dio.

Non sazi della violenza sui servi, i contadini se la prendono poi con il figlio che il padrone manda perché si ravvedano. Anche in questo caso è incomprensibile – se non nell’ottica dell’amore – questo modo di agire del padrone: avrebbe potuto spedire degli uomini in armi per scacciare questi usurpatori, invece manda il proprio figlio! Rischia la vita del figlio affinché queste persone rinsaviscano, riconoscano i diritti del padrone, riprendano il loro posto. Evidentemente il padrone è disposto a perdonarli se accoglieranno con rispetto il suo erede!

Dio non smette mai di sperare che l’uomo “ritorni in sé” (come il figliol prodigo della parabola) e gli offre continuamente l’opportunità di guarire dai suoi deliri di onnipotenza e di ritornare ad un rapporto di figliolanza.

Il problema è che l’uomo crede di essere più felice quando uccide Dio, quando lo elimina dal suo orizzonte esistenziale. È il grande terribile peccato di Adamo ed Eva - mangiando del frutto essi bramavano di prendere il posto di Dio – o degli abitanti di Babele che ambivano a conquistare il cielo costruendo una torre altissima. È la tentazione che accompagna ogni generazione. Scrive il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche nella “Gaia Scienza”: «Dov'è andato Dio? Noi lo abbiamo ucciso, voi e io!... Le nostre mani grondano del suo sangue. Non sentite il lezzo della sua putrefazione? Dio è morto e resterà morto!... Chi uccide Dio diventerà Dio lui stesso!» (sintesi dell’aforisma 125).

Peccato che ogni volta che l’uomo elimina Dio dalla scena della storia, comincia a regnare la violenza, la sopraffazione, il disordine morale, una profonda angoscia esistenziale: ne sono testimoni le perverse ideologie del secolo scorso che hanno sostituito Dio con lo stato o il partito o certe modalità di approccio alla realtà del tempo presente come lo scientismo, l’edonismo, il narcisismo, ma anche il consumismo e un esasperato ecologismo. Il problema è che se elimini Dio alla fine elimini l’uomo, con il suo sguardo oltre la natura, con la sua nostalgia di infinito, con la sua giusta pretesa di travalicare il tempo e la storia verso un’eternità che è l’unica a dare quel senso di pienezza e di compiutezza che tutti anelano.

Dio resta il supremo garante della dignità della persona. L’ultimo strenuo difensore del povero e del debole, ma anche del sognatore e dell’utopista. Egli è il solo capace di liberare la libertà dell’uomo.

Claudio Rasoli


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