Strehler e i teatri chiusi: ode della testardaggine (e un po' della disobbedienza) in ragione della sopravvivenza
Lo scorso 27 marzo si è celebrata la più surreale delle ricorrenze: la giornata mondiale del teatro, con i teatri chiusi proprio nel giorno in cui il Ministro dei Beni Culturali Franceschini ne aveva annunciato la riapertura.
Uno dei più grandi uomini di teatro del ‘900, Giorgio Strehler, disse nel 1977: “fare teatro è affermare la vita contro il buio, contro il vuoto. E’un gesto rivoluzionario, attivo, una sfida alla dissoluzione”. Sembrano parole scritte oggi.
Quella del Piccolo Teatro è una delle pratiche di Cittadella degli Archivi che più ho studiato e che più mi hanno appassionato: poco più che ventenni Paolo Grassi e Giorgio Strehler vennero chiamati dall’allora sindaco di Milano Greppi, nel 1947, a gestire un nuovo piccolo teatro civico, poi denominato Piccolo Teatro di Milano, dentro un vecchio cinemino requisito prima dai nazisti e poi dagli Alleati e nel ’45 abbandonato. Greppi, avvocato e partigiano socialista, assieme alla ricostruzione delle case distrutte dalle bombe comprende che deve ricostruire anche la cultura: a lui si deve la ricostruzione della Scala, e appunto, la nascita del Piccolo Teatro.
La volontà del Comune, messa per iscritto in una Deliberazione della Giunta, era quella di un teatro di intrattenimento popolare e italiano (invero un po' piccolo borghese: Goldoni e un po' di Pirandello nulla di più) per andare incontro alle abitudini e ai gusti dei meno colti. Grassi e Strehler promettono ma ovviamente non mantengono: il primo spettacolo è L’albergo dei poveri di Gor’Kij. Uno shock, che apre le porte ad un altro grande scandaloso narratore dei bassifondi: Bertold Brecht, la cui esclusiva degli spettacoli sarà la fortuna del Piccolo nel mondo (assieme però all’Arlecchino di Goldoni, va d’obbligo riconosciuto) e che scatenerà perfino una lunghissima battaglia legale tra Grassi Strehler la vedova di Brecht e tutto il resto dei teatri italiani.
La sfida e la disobbedienza non si fermano: nel 1962, tra un fiume di polemiche, viene messa in scena una pietra miliare del Piccolo: il Galileo, un successo fuori da ogni previsione. Arriva il ’68 e anche Strehler viene bersagliato dal furore studentesco, dimettendosi dopo la contestazione dei teatri “stabili”. Vi tornerà nel 1972 per lasciarlo solo da morto nel 1997, anno peraltro del 50° anniversario della fondazione del teatro e della consacrazione del Piccolo, capofila dei Teatri d’Europa: Strehler era allora il milanese più famoso nel mondo.
Tutto questo appare veramente miracoloso se si pensa che nel 1954, a soli sette anni dall’inizio dell’avventura del Piccolo, arriva l’invenzione che ha di fatto ucciso la centralità del teatro: la televisione. A conferma della dimensione dell’essenzialità sociale del teatro fino a prima della seconda guerra mondiale, penso sempre a Gilberto Govi, che nelle sue commedie dialettali genovesi citava le arie di Verdi e Puccini, e il pubblico (dialettale, non colto) capiva al volo il riferimento. Le citazioni teatrali erano praticamente un codice del linguaggio del popolo.
Alla devastante minaccia televisiva, fine della socialità culturale e quindi teatrale, Grassi e Strehler reagiscono come due leoni, portando il teatro in tutte le periferie di Milano: tendoni, balere, ogni luogo di raccolta viene utilizzato ed il successo di pubblico è clamoroso.
Philippe Daverio, che di Strehler divenne amico quando da assessore terminò i lavori del Nuovo Piccolo Teatro (oggi Teatro Strehler), mi diceva sempre che Giorgio Strehler era riuscito a far credere a tutti che il teatro non solo era ancora vivo, ma anche che era indispensabile (e che per farlo bisognava finanziare il Piccolo… ).
Fellini negli anni ’80 disse che il grande cinema era finito, e che saremmo andati al cinema come si va al museo: a ri-vedere eccellenze del passato e niente di veramente nuovo. Aveva ragione. E forse aveva ragione anche Daverio quando diceva che il teatro era morto da vent’anni e che solo Strehler e Grassi erano riusciti nel grande trucco di farlo credere vivo e necessario. Aggiungo io, con una testardaggine fremebonda e con una cospicua dose di disobbedienza.
Io non so se il teatro risorgerà dalla psicosi-da-covid o se stavolta è morto del tutto, ma Strehler e Grassi insegnano che per esistere occorre anzitutto persistere, fare un po' di testa propria e creare nella società il bisogno di ciò che si vuole offrire. E questo non vale solo per il teatro.
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
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