20 settembre 2021

Transizione ecologica, bomba ad orologeria

Ursula von der Leyen, in improbabile veste di fatina bionda alla guida di una Confraternita di buoni sentimenti, va dicendo che l’Europa in occasione della pandemia ha dimostrato di avere un’anima. Beata lei che ha le idee chiare circa l’anima, suggestiva e inafferrabile cosa riguardo a cui  confesso di non esser mai pervenuta a qualche stringente certezza. Ma qui il mistero è doppio: non solo cosa sia l’anima in generale, ma cosa sia l’anima europea in particolare. E qui, chiunque non sia del tutto digiuno circa il nostro passato, qualche idea ce l’ha.  Almeno quanto basta a distinguere fra l’anima dell’Europa che avevano in testa i grandi padri fondatori  del secondo dopoguerra e l’anima rigidamente contabile che, a quanto pare, è di nuovo alle viste dopo la caritatevole pausa pandemica e il sostanzioso prestito concesso al nostro Paese. Ma ora passa all’incasso e indirettamente piomba su di noi con due spauracchi di differente natura ma  analogo impatto. L’uno per ricordarci che la transizione ecologica è un impegno che costerà lacrime e sangue. L’altro per riproporre una revisione catastale che consentirebbe al fisco un nuovo giro di vite, probabilmente mortale, sugli immobili e il complessivo indotto collegato a un’edilizia in netta ripresa. Come l’ha presa la politica? Le nuove tegole piombano su partiti intenti a leccarsi le ferite e tuttora lontani dall’aver posto rimedio a quello stato di fluida inconsistenza di cui il miserevole allestimento delle candidature per le imminenti amministrative ha offerto discreto assaggio.  Siamo peraltro nel famoso anno zero della politica: fisionomie programmatiche disinvoltamente scavalcate, appartenenze culturali e ideologiche declassate a chincaglieria per nostalgici, schemi di gioco ponderati e collaudati sostituiti da fibrillazioni tattiche spesso più umorali che razionali. E la cosa,  per qualche perversa ragione, era persino tranquillizzante: risveglio dell’economia che scalda i motori per un grande decollo e partiti che, sonnecchiando, non possono far danno: Salvini, Letta e Conte giocano a lanciarsi le solite freccette  mentre Draghi fa quel che deve, e quel che vuole, in sovrana solitudine.

Ma a rompere la falsa quiete, ecco la bomba a orologeria in grado di sparigliare le carte e ridisegnare il gioco: si chiama transizione ecologica, è nel pacchetto di impegni presi con l’Europa e la clamorosa impennata imminente dei costi energetici ne preannuncia le cruente implicazioni economiche e i complessi contraccolpi politici C’è infatti un altro modo, più brutale ma finora cautamente taciuto, per chiamare la cosa: riaffacciarsi del nucleare come energia ‘pulita’ in grado di dare una decisiva mano al fabbisogno del sistema produttivo senza impiccarci agli strozzini di turno. L’annuncio della mazzata che attende bollette di famiglie e imprese contiene dunque  un messaggio neanche tanto cifrato: non avete voluto il nucleare? Benissimo, ma attenzione perché la scelta non sarà indolore e l’imminente stangata in bolletta non è che un modesto assaggio di quel che ci attende. E’ evidente che la questione prenderà di petto e metterà alle strette in modo particolare il variegato pianeta ambientalista che ha la sua roccaforte nei 5 Stelle. Se in linea di principio rivendicare il superamento del fossile e fare muro contro il nucleare poteva apparire una quadratura del cerchio impervia ma non priva di qualche  interna coerenza, nella stringente morsa delle concretissime scelte da assumere ogni verginale intransigenza  andrà a sbattere contro la ruvida evidenza dei fatti:  i sistemi produttivi in ripresa hanno fame di energia e da qualche parte quest’energia va trovata. Ma la patata bollente  avrà riflessi su tutti gli schieramenti politici rendendo ancor più evidenti le implicazioni invalidanti connesse a quel che la politica, pur avendone avuto tutto il tempo, non ha fatto: formare una nuova classe dirigente culturalmente e professionalmente più attrezzata a questo genere di sfide.  Il declino viene da lontano  e ha ovviamente a che fare col transito dai più familiari scenari del ‘900 a quelli di un terzo millennio globalizzato e preda di gigantesche trasformazioni geopolitiche in grado di mettere in costante difficoltà le nostre strategie di sopravvivenza.

Sulla via del congedo dal ‘900 una parte di strada, in effetti, la politica l’ha fatta. Ha provveduto all’uccisione dei padri. Niente di sconveniente: il termine è scientifico e allude all’inevitabile affrancamento dal modello paterno come rito di passaggio all’età adulta.  Basti guardare alla distanza di Salvini da Bossi o di Letta da Berlinguer per capire di cosa stiamo parlando.  Il guaio è che, a casa paterna lasciata e a padre simbolicamente ucciso, di età adulta  non c’è alcuna convincente traccia. I partiti indugiano in un galleggiamento giornaliero che va a rimorchio degli umori dell’elettorato e in un presentismo che elude sia il rapporto col passato  e i padri fondatori sia quello col futuro,  ridotto al labile spazio temporale che corre fra un sondaggio e l’altro. Su tutto questo piomba ora con il peso delle inevitabili implicazioni, comprese quelle coi rispettivi elettorati, il tema del modello di sviluppo e del tipo di ‘carburante’ che dovrà sostenerlo. Essendo un ritorno al nucleare fra le ipotesi non remote, ci vuol poco a intuire che il prezzo più alto, il maggior scompiglio e le lacerazioni più profonde riguarderanno il centro sinistra. Non a caso Draghi ha incassato il no secco di Conte e il possibilismo, anzi il sì, di Salvini, già opportunamente commentato da Vittoriano Zanolli.  Per  il leader leghista il problema potrebbe addirittura convertirsi in vantaggiosa doppietta: rinverdire il vincolo coi ceti produttivi del Nord che scalpitano per ripartire senza la palla al piede di esorbitanti costi energetici e farsi perdonare quel reddito di cittadinanza che segnò il massimo punto di distanza della Lega dalla severa etica sociale del ‘laburismo’ nordista.  Neppure il Pd manca, in effetti, di un’anima industrialista e tecnocratica  ma, con Letta incartato nel ruolo di Samaritano degli ultimi e dei ‘diversi’, sbiadita via di mezzo fra Pannella e papa Francesco, è fondato supporla in transito  verso i Calenda e i Renzi.  Quanto a Letta, è giunto a tale remissività culturale da accettare che velleitarie sardine, in piena acne giovanile, muovano all’assalto delle sue liste allo scopo di ‘svecchiarle’: orribile parola che dice la superficiale arroganza di chi la usa e la colpevole compiacenza di chi la accetta.  Un riacceso confronto sul nucleare rischierebbe dunque di impiccare il partito che fu di Gramsci agli umori adolescenziali dei pesciolini che lo ‘svecchiano’ e alle inclinazioni di ‘decrescita felice’ dei 5 Stelle che, pur con intermittenti crisi di rigetto,  gli garantiscono la stampella dei loro numeri parlamentari.

Ma eccoci al nocciolo del problema. Chi più di tutti ha bisogno di auguri è proprio Conte, l’ex avvocato del popolo che per ora non è andato oltre una decorosa declinazione di se stesso: abile giurista e abilissimo compilatore di proclami, decaloghi, patti e dichiarazioni di intenti in bella calligrafia. Senonché quel che bolle in pentola potrebbe usurare o spiazzare i due più fulgidi astri propagandistici della corona pentastellata: legalità e green economy. Se lo stesso Luciano Violante si scomoda per dire che le toghe non possono prendere il posto della politica vuol dire che l’appeal esercitato nel 2018 dal giustizialismo grillino su un elettorato abilmente aizzato contro la casta,  ha esaurito l’originaria forza propulsiva. Quanto al resto, un riacceso dibattito sul nucleare potrebbe contemporaneamente aprire tre fronti di crisi. Uno interno al Movimento, fra ala governista e duri e puri alla Di Battista. Un secondo fronte investirebbe il rapporto col Pd, che, prevedibilmente pragmatico e possibilista, eviterà di trasformare il dibattito sul nucleare in una guerra santa ideologicamente guerreggiata.

Ma è il terzo fronte, quello del rapporto con la Cina, a riservare le più sostanziose sorprese. In fondo, Conte non ci ha mai limpidamente spiegato come si concilia la devozione pentastellata per legalità ed ecologia con quella per il gigante cinese, potenza sommamente illiberale e se occorre cruenta, divoratrice delle risorse del pianeta e massima responsabile dei cambiamenti climatici, campione di illegalità commerciale e di conseguenti stratagemmi di cui la produzione italiana fa da anni le spese. C’è di più: in virtù di specifici giacimenti minerari sarà proprio la Cina a incassare i più ricchi dividendi della transizione ecologica cui siamo chiamati. Fino a che punto la passione filocinese – fitte relazioni diplomatiche, tetragona difesa della Via della Seta e così via – è concretamente compatibile con la lealtà dovuta ai nostri interessi nazionali? Il Movimento è davvero, come molti sostengono, il Cavallo di Troia dell’imperialismo cinese in Europa?  Quand’anche il futuro prossimo non ci consenta di capire tutto, qualche indizio in più sarà costretto a darcelo. E, per ora, ce lo faremo bastare.

vittorianozanolli.it

Ada Ferrari


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commenti


Elisabetta Maderi

21 settembre 2021 06:58

Acuta ed interessante analisi degli interrogativi collegati alla cosiddetta " transizione verde": Ada Ferrari evidenzia le debolezze e contraddizioni di politici di basso livello alla ricerca di facili consensi, con distanze siderali dai padri fondatori, in perfetto parallelo con ciò che avviene nell' Europa attuale.
Il ritorno possibile al nucleare solleva grandi questioni e primariamente ci si chiede chi e come gestirà la cosa...
Ed infine " transizione verde": grandi dubbi sulla gestione anche guardando solo cosa avviene a Cremona..