Triste e amaro doversi creare dei nemici per dare un senso alla propria vita!
“Siamo in una cornice di civiltà disastrosa. La superficialità porta l’identità a fondarsi sul nemico. Se uno non ha un nemico non riesce a caratterizzare sé stesso”, sono parole sapienti dello psichiatra e scrittore Vittorino Andreoli, alle quali si aggiungono quelle del noto filosofo e pensatore Umberto Eco contenuto in un suo libro del 2011 “Costruire il nemico e altri scritti occasionali”. In questa raccolta di saggi, l’autore de “Il nome della Rosa”, sostiene che avere un nemico è importante non solo per definire la propria identità ma anche per procurarsi un ostacolo rispetto al quale misurare il proprio sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, la superiorità di questo sistema. Pertanto, secondo Eco, quando il nemico non c’è, bisogna costruirlo.
Non bisogna certo scomodare gli intellettuali del nostro tempo per comprendere questo fenomeno recondito dell’animo umano che è comune a tante persone e che forse si è acuito grazie ai disagi psichici conseguenti alla pandemia. Si cerca e si crea sempre un nemico per tanti motivi: per riversare su di lui tutti i fallimenti, le malvagità, gli errori – principalmente i propri -, per competitività – soprattutto in questo nostro tempo barbaro e dove, per forza, bisogna essere sempre i primi e i vincenti -, per paura della diversità, per dare sfogo alla propria aggressività, ma anche per invidia e gelosia. E non da ultimo perché il male ha sempre “quel non so che” di affascinante, di conturbante, di misterioso e, soprattutto di immediato: il male offre sempre una “soddisfazione” fulminea che, però, poi, a lungo andare, si trasforma in un “bocca amaro” che avvelena il cuore e la mente.
Anche dal punto di vista sociale la creazione del nemico porta notevoli vantaggi: compatta i gruppi attorno a degli obiettivi comuni, rafforza certe convinzioni e sistemi valoriali, chiarisce esattamente dove è il bene e dove è il male, offre motivi per vivere, per impegnarsi, per combattere: “Dio lo vuole” gridavano i crociati mentre massacravano uomini e donne inermi rei solo di professare un’altra religione!
Sembra quasi che sia conveniente crearsi dei nemici: un fenomeno che può sembrare esecrabile, ma che in realtà circoscrive il male, imbriglia l’aggressività e la violenza, fortifica la propria identità.
Eppure basta solo approfondire un poco il tema per comprendere che dietro la “creazione” di un nemico si cela solo tanta insicurezza, scarsa fiducia in sé stessi e nelle proprie capacità, un insieme di valori meschini per nulla fecondi e immaginifici, un sostanziale vuoto di senso.
Quando è stato abbattuto il muro Berlino – che separava due mondi e due verità contrapposte – non è forse crollato un sistema che per certi versi manteneva una chiarezza, una identità, una stabilità che forse oggi rimpiangiamo?
È triste doversi inventare un nemico per trovare un significato e un senso al proprio vivere, per catalizzare energie, passioni, creatività, impegno verso determinati obiettivi!
Si ragionava prima che il male ha una forza attrattiva straordinaria perché solletica le corde intime del potere, dell’egemonia, della supremazia: siamo vivi se abbiamo la sensazione di dominare le persone, le cose, gli avvenimenti…
Ebbene noi amiamo il male, ma odia il malvagio perché è nostro concorrente, è colui che ambisce ad avere il nostro posto, per godere l’ebbrezza del potere. Gesù, invece, odia il male che avvela anzitutto la fraternità, ma ama il malvagio e cerca in tutti i modi di salvarlo da quell’aggressività che alberga nel proprio cuore e che lo rende simile ad una bestia feroce, solitaria e disperata.
“Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra”, parole da vette inarrivabili, concetti sublimi che dicono a quali vertici di Paradiso può giungere il cuore dell’uomo se si abbandona a Cristo. Parole che affascinano, ma anche che atterriscono per la loro radicalità. Opporre sempre il bene al male, non è forse una forma di arrendevolezza, di accondiscendenza, di pavidità?
Ebbene porgere l’altra guancia non significa capitolare di fronte al male, ma fare in modo che il male non possa propagarsi, mostrando al malvagio la forza della mitezza e della misericordia e l’assurdità della violenza.
Porgere l’altra guancia vuol dire non lasciarsi trascinare dal rancore e dal risentimento che intristiscono la vita e continuano a legare la vittima all’aggressore permettendo al male di continuare a produrre i suoi effetti.
Porgere l’altra guancia significa, con gesti di pace e di dialogo, cercare di far comprendere le ragioni della giustizia e del bene. Lo stesso Gesù, la notte del processo dinanzi al Sinedrio, subito dopo aver ricevuto uno schiaffo dal soldato del sommo sacerdote, chiese conto di quel gesto, non tanto per affermare i propri diritti, ma per aiutare quell’uomo a riconoscere che non è con la forza e la sopraffazione che si giunge alla verità!
Amare non è facile, già con chi ci è vicino e ci vuol bene, sentiamo tutte le contraddizioni dell’egoismo e dalla smania di possesso, figurarsi amare il nemico e il persecutore! È un lavoro interiore che dura tutta la vita e che ha bisogno della grazia di Dio da chiedere nella preghiera, nella meditazione attenta del Vangelo, nella contemplazione della vita di tanti santi che hanno lasciato che il perdono avesse la meglio sulla vendetta. Ma per fare questo occorre imparare a morire a sé stessi ogni giorno, in un luminoso cammino di liberazione dal proprio ego.
Giovanni XXIII nel suo giornale dell’anima scriveva pressappoco così: “Tutti mi chiamano buono. Ma non sanno cosa mi costa essere buono!”.
Maria Goretti, povera contadina dell’Agro Pontino, prima di essere trucidata dal suo violentatore esclamò: “Per amore di Gesù lo perdono, voglio che venga con me in Paradiso”. Parole potenti, le uniche capaci di cambiare il corso della storia.
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