Un garofano all'occhiello, ode alla frivolezza
Dio sa se in questi tempi non siamo circondati da ansie di ogni genere: guerre, inflazione, epidemie, commemorazioni di eccidi e stermini, elezioni politiche… c’è l’imbarazzo della scelta per scrivere un editoriale. Eppure, nell’imbarazzo dei tanti problemi di cui occuparsi, a me è venuta voglia di parlare di un fiore, e in particolare di un fiore all’occhiello. Insomma di rispondere alle ansie con un po' di frivolezza, giacché come diceva Jean Cocteau la frivolezza è la migliore risposta alle ansie…
Il grande Voltaire scriveva che “se non fossimo un po’ frivoli, metà di noi finiremmo a impiccarci” e più di un paio di secoli dopo non posso che confermare che aveva perfettamente ragione, prendersi troppo sul serio fa male alla salute, soprattutto mentale. Viviamo un tempo in cui non si fa che narrare con severità da pastori mennonìti di grandi disastri che però accadono a migliaia di miglia da noi, o in cui all’estremo opposto questioni assolutamente secondarie e salottiere vengono elevate a dogma di indiscutibile importanza, cioè tutto il contrario della frivolezza. Viene da pensare che come diceva Oscar Wilde non c’è cosa più seria che essere capaci di un po’ di frivolezza. Magari come quella frivolezza elegante e intelligente dei film di Woody Allen, genio assoluto della vita raccontata con umorismo pungente e raffinata leggerezza perfino nella morte, come nella divertentissima camera mortuaria di Tutti dicono I love you. E forse non sono poi così incomprensibili le ragioni dello strapotere mediatico e sociale che sta dimostrando anche quest’anno il Festival di San Remo, quintessenza della italica frivolezza nazional popolare, dove i fiori non a caso sono sempre protagonisti, anche quando vengono presi a calci sul palcoscenico da Blanco che il 10 febbraio ha compiuto 20 anni.
Lo stesso giorno, ma del 1840, in cui la giovanissima e piuttosto bruttina Regina Vittoria del Regno Unito sposava l’amatissimo e bellissimo principe Alberto Sassonia Coburgo Gotha, il quale secondo la leggenda uscendo dalla chiesa novello sposo prese un garofano dal bouquet della consorte e se lo mise sull’uniforme all’altezza del cuore. Da allora in poi divenne uso comune per ogni rispettabile gentiluomo inglese portare un garofano all’occhiello della giacca. Per la verità, con buona pace degli Inglesi, il precedente è più vecchio è tutto francese: lo Chevalier de Rougeville tentò di far evadere Maria Antonietta dal carcere comunicandole il piano attraverso un minuscolo bigliettino che aveva inserito trai petali di un garofano, che per non insospettire le guardie aveva infilato all’occhiello della redingote…come fallì miseramente quello che è passato alla storia come “l’affaire de l’ouellet” (il caso del garofano, ndr) lo sappiamo purtroppo bene, ma il bigliettino è ancora conservato agli Archivi Nazionali di Francia e l’importanza del “fiore all’occhiello” talmente cresciuta di divenite perfino un modo di dire.
Durante la Belle Epòque e nell’Inghilterra eduardiana l’uso del fiore all’occhiello ha poi raggiunto vette arditissime: come ricordava Federico Zeri alla corte di Bernard Berenson pendevano dagli occhielli di diafani gentiluomini camelie, orchidee, dalie e addirittura glicini; Oscar Wilde portava spesso un garofano verde, simbolo segreto di riconoscimento tra gli omosessuali del tempo, e la famiglia reale inglese ne ha fatto una usanza che ancora resiste: Carlo III porta da spesso dei fiordalisi azzurri e sugli elegantissimi abiti di Giorgio V non mancavano mai dei grandi garofani bianchi o rosa. E il cinema non è stato ovviamente da meno: come dimenticare il garofano rosso scarlatto sullo smoking bianco in shantung di Sean Connery nei panni di James Bond o quelli morbidi e perfettamente aderenti al bavero di Rex Harrison in Merletto di Mezzanotte? E ancora quelli dell’elegantissimo Mastroianni di Matrimonio all’italiana o addirittura il vasetto d’argento con piccole composizioni che porta David Suchet nei panni di Hercule Poirot? Altri indimenticabili portatori seriali di garofani all’occhiello furono Jackie Gleason, il paffuto famosissimo re della Tv americana, e il mondanissimo playboy internazionale Don Jaime de Mora y Aragòn meglio noto come “Fabiolo”, in quanto fratello vanesio e debosciato della castissima Fabiola, Regina del Belgio, e che finì perfino in un film di De Sica.
Ovviamente, come ogni cosa nel vestire, anche il fiore all’occhiello ha le sue regole, anzitutto su come va portato nel bavero: il peduncolo deve scomparire completamente inghiottito dall’asola, mentre dall’occhiello devono esplodere turgidi e rigogliosi solo i petali della corolla. Non me ne vogliate, ma quelle rose contornate di felci e mughetti che vi appiccicano sul bavero ai matrimoni e che pesano come un pappagallo sulla spalla, ecco quelle sarebbero proprio da evitare.
Il fiore all’occhiello andrebbe portato quasi solo in inverno, quale discreto richiamo alla primavera che verrà e anche perché in estate in caldo li affloscia in poche ore, ed ecco che dunque anche la resistenza del fiore ne ha determinato nei tempi la scelta prevalente sul garofano, molto resistente e anche poco costoso, caratteristiche che ne fecero anche il fiore distribuito dalle donne ai primi socialisti nelle fabbriche dell’ottocento, ovviamente rosso, oppure della Democrazia Cristiana, ovviamente bianco, “fiore simbolo d’amore” come recitava il famoso inno. Perfino nei mondanissimi e plastificati anni ’80 il garofano fu protagonista dello spot berlusconiano della ascesa di Craxi al potere, dove l’allora Segretario del PSI intervistato da Gianni Minoli se ne infilava uno nel bavero inneggiando “a continuare il cammino con un fiore”…
Io da anni porto un garofano all’occhiello da dicembre a marzo, lo cambio ogni giorno: costa come un caffè ma dura molto di più, e mi dà il conforto buono dell’armonia dell’opera arte riuscita, come dice Steiner nella Dolce Vita, e nel tempo è diventato più una esigenza quotidiana che un gesto di vanità. Chissà, forse solo per una questione di estetica, o forse perché ormai è talmente fuori del tempo e lontano dalla direzione in cui andiamo a tappe forzate e che mi piace sempre meno, che mi ci ancoro come alle care vecchie cose che non si vogliono buttare.
Mettete dei fiori nei vostri cannoni si cantava negli anni ’70, e chissà che anche metterli negli occhielli non sia un gesto di resistenza…
(La foto del professor Martelli è di Daniele Mascolo)
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
© RIPRODUZIONE RISERVATA
commenti