1 maggio 2021

Non dimentichiamo quei mestieri scomparsi e le saracinesche arrugginite

“Andava meglio quando andava peggio” recita un vecchio detto popolare che non sembra mai passar di moda. Di questi tempi in cui, le pesanti difficoltà del momento fanno rimpiangere quella che, meno di un anno e mezzo fa era la normalità, torna ancora una volta in auge. E’ una pillola di saggezza campagnola che, troppo spesso, si è schiantata contro il muro dell’indifferenza che flagella la società di oggi. 

Quando cammini impari a osservare meglio ciò che incontri lungo il percorso; non sei solo come taluni affermano ma sei semplicemente te stesso, in mezzo a tanti soli, che nel baccano trovano un inutile ed effimero rifugio. Impari a scrutare meglio i dettagli, ascolti i silenzi e ti chiedi dove stiamo andando. Cammino spesso, sull’una come sull’altra riva del fiume, nei centri dei nostri paesi,  attraversati da vecchie vie che non sembrano aver fine e da strade porticate dove le architetture di un tempo continuano a parlare di un passato laborioso, fatto di gente tenace e sanguigna, che non conosceva fatiche e sudori e, per molte ore al giorno, e tutti i giorni, costruiva il presente e il domani. Uomini e donne che quasi non conoscevano il senso della parola vacanza e, quando avevano qualche giorno per tirare il fiato, raggiungevano in bicicletta il “mare dei poveri” (il Po) o le prime colline emiliane. Il mare, quello vero, e le Alpi non li vedevano nemmeno in cartolina; ne conoscevano però l’esistenza e questo era sufficiente. 

Più volte, tra una camminata e l’altra, mi metto a contare le botteghe chiuse: troppe, ovunque. Ci sono le saracinesche in ferro con la ruggine che sembra scendere come lacrime inconsolabili; portoni in legno dove le crepe scorrono come squarci di dolore; inferriate in ferro battuto che chiedono solo di osservare, nei loro piccoli dettagli, i saperi e la maestria di chi le ha realizzate. Ci sono le vecchie imposte che, allo sferzar del vento, si sbattono e fanno immaginare che qualcuno le abbia mosse ancora una volta, ma i pochi brandelli di qualche tenda cucita a mano spengono, sul nascere, ogni speranza. Chi abitava dietro a quei muri popola oggi il camposanto, che ha più “abitanti” di quanti ne abbia invece il paese. Ecco perché, ogni volta che si passa di fronte al cimitero, una breve sosta è sempre preziosa ed una preghiera, accompagnata da un “Grazie”, non deve mancare. 

Dove possibile cerco di sbirciare all’interno delle vecchie botteghe, vere e proprie oasi del silenzio in cui il tempo si è fermato, per continuare a parlare di un passato che, per quanto andato, continua a comporre tenacemente le nostre radici e, sommessamente, bussa per essere parte del nostro futuro. Ci sono ancora i vecchi banconi, i tavoli da lavoro, le sedie impagliate, i travi in legno con i semplici lampadari di allora, le vettovaglie, i pochi resti di arnesi da lavoro ormai arrugginiti e inservibili. Piccoli e genuini musei itineranti della civiltà contadina che, seppur segnati e attraversati dal tempo, tengono viva la memoria semplice, ma profonda, di queste terre padane. 

Sono troppe le saracinesche abbassate, segni di paesi che si sono lentamente spopolati, dove intere generazioni hanno preferito andarsene per cercare fortuna e futuro altrove. Per una volta non è colpa della pandemia; nessun virus ha creato tutto questo. L’avvento dei grandi centri commerciali prima e della tecnologia poi, con l’avanzata di “Amazzonia” e di altre “diavolerie” che danno la possibilità di fare acquisti, chissà dove e chissà da chi, pigiando su un pezzo di ferro, ha portato alla morte delle vecchie botteghe, e all’agonia di tante altre. Naturalmente con il “beneplacito” di tutti coloro che, seguendo le nuove mode e le più recenti “comodità”, capaci anche di togliere il piacere del contatto umano, hanno dato la loro gentile collaborazione a questa lunga, lenta e devastante pandemia commerciale che, come un ciclone, si è abbattuta sulle nostre piccole comunità di fiume. Sono rimaste le vecchie foto ingiallite, spesso logorate, nascoste nei fondi dei cassetti, o fortunatamente finite su qualche libro di storia locale, a narrarci le vicende di quegli antichi mestieri che, una volta, animavano questi borghi rendendoli simili a un grande centro commerciale naturale o, meglio ancora, a un presepio perenne. 

C’erano i calzolai e i maniscalchi, i falegnami e gli arrotini, i mugnai e i meccanici per biciclette, gli stagnini e i gelatai ambulanti, i cestai e i cordai, gli scopai e i carrettieri, i fabbri e i barbieri, le sartine e le ricamatrici, le magliaie e le lattaie, gli spazzacamini e i materassai, i vetrai e gli orologiai, i salumieri e i barcaioli. Arti, più che mestieri, linfa e cuore dei piccoli borghi del Po.

Un passato perduro da affidare solo ai libri di storia e ai ricordi di pochi?

Nel momento storico, straordinariamente difficile, che stiamo vivendo, non è detto che tutto sia perduto. Dal passato si può sempre ripartire e, soprattutto, si deve imparare, tenendo unite, e vive, le nostre comunità. 

Chi è proprietario delle vecchie botteghe, anziché lasciarle cadere, si metta una mano sul cuore, e non sul portafogli, affidandole a quei giovani e a quelle famiglie che vogliono rimettersi in gioco ridando vita ai nostri paesi; chi ha in mano i cavilli, i vincoli e i nodi della burocrazia, renda meno intricate e più morbide le regole, almeno in questa fase storica; gli incravattati a cui è dato il potere di decidere diano aiuti veri, e non belle parole, a chi si rimette in gioco. 

Perché, inoltre, non mettere le vecchie botteghe, anche per periodi limitati, a disposizione di coloro che, venendo da altri lidi, vogliono portare i loro prodotti nelle nostre terre, dando così vita a una fiera itinerante dei saperi e dei gusti che, una volta tanto, unisca il Paese?

La pandemia porterà tante persone a ricercare di nuovo ciò che è genuino, ciò che è buono, ciò che è sicuro, ciò che nasce dalla terra, dal fiume e dalle mani dell’uomo, lontano dalle masse, in cerca di nuove mete, nuove emozioni e rinnovati saperi. 

Si organizzino vere e proprie scuole dando la possibilità, a tutti, di cogliere la bellezza e l’opportunità dei vecchi mestieri, non per scrivere un inutile libro dei sogni, ma per costruire un presente e un futuro alla portata di tutti. Possano tornare a illuminarsi le nostre botteghe; si possa di nuovo sentire il rumore delle arti e dei mestieri nelle nostre vie porticate e tra gli archi dei vecchi fienili; si possa tornare al passato per realizzare il progresso, per un domani radioso. Ricordando quanto diceva Ernest Hemingway: “Siate tutti apprendisti in un mestiere dove non si diventa mai maestri: la vita”.

Eremita del Po 

Paolo Panni


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