17 marzo 2021

Una generazione che sogna un futuro senza figli

Mentre stavo riflettendo sul Vangelo di domenica prossima che riporta la nota frase di Gesù: “Se il chicco di grano non muore non porta frutto”, mi è caduto l’occhio su una ricerca che la Fondazione Donat-Cattin - nata per tenere vivo il pensiero di quel Carlo, più famoso per essere stato il padre di Marco terrorista rossa di Prima Linea che per la sua lunga e onesta militanza politica nella sinistra DC – ha commissionato a un istituto demoscopico in occasione del trentennale della morte dell’uomo politico. Il tema dell’indagine è la fecondità delle nuove generazioni, un tema assai caro a Donat-Cattin che già nel settembre 1986, durante un convegno di studi, fu profetico nel parlare di “inverno demografico” per il nostro paese e nell’invocare un radicale cambio delle politiche per la famiglia.

I risultati lasciano davvero impietriti: secondo la ricerca il 51% dei ragazzi interpellati (dai 18 ai 20 anni) immagina il proprio futuro senza figli. Tra questi il 31% stima che a 40 anni avrà un rapporto di coppia ma senza prole e un ulteriore 20% pensa che sarà single.

Le motivazioni di questa sfiducia nel generare la vita sono diverse e alcune oggettivamente plausibili: l’87% parla di carenza di lavoro, il 69% di assenza di adeguate politiche che sostengano le famiglie, ma una percentuale analoga sostiene di non voler intraprendere delle relazioni stabili e il 37% ritiene i figli un ostacolo alla propria libertà, alla pianificazione autonoma della propria esistenza.

Ci ritroviamo dinanzi a una generazione che guarda al futuro nel segno della solitudine e della infecondità, una generazione che molti analisti hanno definito “narcisista”, cioè totalmente ripiegata su sé stessa, impegnata costantemente a guardarsi allo specchio e preoccupata unicamente di raggiungere il proprio piacere, la propria autorealizzazione a prescindere da tutto e da tutti.

Leggendo i dati si può anche ricavare una seconda considerazione: è una generazione fatalista e pessimista che guarda al futuro con paura e senza speranza. Proprio questi due atteggiamenti sono l’antitesi della giovinezza che, invece, per antonomasia è coraggiosa, propositiva, entusiasta, creativa, per certi versi utopica.

È vero che la crisi economica, peggiorata drammaticamente dall’epidemia per Covid19, è un problema da non sottovalutare, ma è anche vero che molti giovani faticano a mettersi in gioco, a rischiare, anche adattandosi a lavori umili e impegnativi. Un imprenditore, coscienzioso e attento alle problematiche delle maestranze, un giorno mi ha confidato sconsolato: “Nei colloqui la prima cosa che i ragazzi vogliono sapere è quando ci sono le ferie e i riposi. Molti rifiutano il lavoro perché bisogna dare la disponibilità anche al sabato e alla domenica. Non vedo passione, voglia di mostrare quello che sanno fare”. Manca quel sano orgoglio, quell’intraprendenza che ha contraddistinto le generazioni della ricostruzione post bellica e del boom economico: uomini e donne che avevano voglia di costruire qualcosa di bello e duraturo, di essere artefici del loro futuro, temprati dal sacrificio e da precoce maturità.

Narcisismo e fatalismo che inevitabilmente – come giustamente evidenza la ricerca – sfocia nel nichilismo che è il grande nemico della nostra società. Nietzsche definiva il nichilismo come mancanza di scopo, come la carenza di risposte al perché del vivere: un vuoto di senso che non solo frena ogni slancio e ogni passione, ma che mette in dubbio anche il valore e la bellezza della vita umana, basti pensare che ogni anno 400 ragazzi in età scolare scelgono di suicidarsi piuttosto che affrontare il futuro.

Dare la colpa ai giovani e alla società è comodo e facile, ma è chiaro come il solo che una generazione è il frutto dell’impegno educativo di quella precedente. Se i giovani e la società sono così è perché noi li abbiamo voluti così.

Li abbiamo riempiti di cose senza insegnar loro a conquistarle. Li abbiamo difesi in ogni consesso facendo credere loro di avere sempre ragione. Gli abbiamo evitato ogni sofferenza, disagio, sacrificio facendoli supporre che la vita sia sempre un’autostrada a quattro corsie. Abbiamo permesso che fossero risucchiati in un mondo digitale dove hanno imparato tutto e subito, senza quella necessaria gradualità che è necessaria per continuare a meravigliarsi e stupirsi della vita. E poi gli abbiamo insegnato il sesso come se fosse tutta una questione meccanica dimenticando di educarli all’affettività e a un sano senso del pudore. Gli abbiamo dato come esempi dei rapper che esaltano la droga e il disprezzo dell’autorità e influencers che passano le loro giornate ad ammiccare al telefonino.

Nessuno ha insegnato loro a occupare il tempo in maniera proficua e costruttiva, magari mettendosi a servizio dei più fragili, e adesso li troviamo ciondolare da un bar all’altro, da una panchina all’altra, con gli sguardi tristi e disincantati, incapaci di riempire le ore e i minuti con qualcosa che scaldi il loro cuore.

Un giorno ad un bravo ragazzo, tra l’altro ottimo studente, ho chiesto in maniera provocatoria: “Che libro stai leggendo in questi giorni?”, guardandomi come un extraterrestre appena sbarcato sulla terra, mi ha risposto scrollando la testa: “Ma secondo lei? Ne ho già abbastanza di quelli di scuola…”. Touché!

Leggevo da qualche parte la provocatoria azione educativa di un padre – più scandalosa delle performances di Achille Lauro sul palco di Sanremo -: “Concederò il telefonino ai miei figli – dichiarò solennemente - solo quando dimostreranno di amare la lettura, solo quando dedicheranno almeno un’ora al giorno ad un libro che non sia scolastico”. La rinascita della società passa senza dubbio da una riscoperta della cultura come via di umanizzazione, come capace di interpretare il cuore dell’uomo, quel senso del vivere che accende le passioni, i desideri grandi, le aspirazioni belle. Certo non bastano i libri, occorrono adulti educatori così, che narrino storie accattivanti, che aiutino ad interpretare la realtà con occhi di speranza e di fiducia, che mostrino con la loro vita quanta ricchezza di umanità e di significato c’è nel sapere, quanto nobile sia sacrificarsi per gli altri, quanto sublime sia l’amore che nulla chiede e tutta dà, quanta potenza c’è nel seme che muore e che porta frutto. 

L’assassino di don Pino Puglisi ha raccontato il suo continuo turbamento nel ricordare il momento in cui premette il grilletto: il prete antimafia si girò, gli sorrise e gli disse “Me lo aspettavo”. Quel sacrificio, quel seme marcito tra le paludi del malaffare e della violenza, ha permesso che germogliasse qualcosa di nuovo, una consapevolezza diversa tra quella gente, tra quei giovani apatici e annichiliti. Di queste storie hanno bisogno i ragazzi di oggi per ridestarsi da quel torpore a cui noi vecchie generazioni li abbiamo condannati.

Claudio Rasoli


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