1944, a Terra Amata sul manubrio di una bici per sfuggire alle bombe. Il bagno al Naviglio e nelle rogge
Terra Amata. Non so dire come vi giunsi la prima volta, ma la seconda vi arrivai seduto sul manubrio di una bicicletta da donna spinta vigorosamente dall’Angiolina. La schiena rivolta verso il senso di marcia, per tenermi in equilibrio, stringevo forte le mani sulle spalle della ragazza e sui vestiti che le coprivano. Lei mi parlava dicendomi cose che non ricordo mentre spostava la testa, ora a destra ora a sinistra, forse per permettere allo sguardo di superare l’ostacolo costituito dal mio corpo mai fermo. Mi era impossibile non muovermi, il ferro del manubrio andava lasciando dei segni grossi sulla parti delle cosce non coperte dai calzoni corti che, a quel tempo, i bambini rigorosamente portavano, mentre la ricerca di un momento di sollievo mi costringeva a spostare il peso del corpo da una parte all’altra dell’appoggio. Forse le parole dell’Angiolina, quelle che non ricordo, erano un invito a stare fermo, a trovare una posizione che a lei permettesse di guardare avanti, ed erano parole gentili mai di rimprovero. on noi al nostro fianco pedalava anche Severa. Si chiamava proprio così: Severa, come la santa martire, questo lo scoprii molti anni dopo; ma tutti la chiamavano Severina e la vezzosità di quel diminutivo addolciva e nascondeva la durezza di quell’inappropriato ed immeritato nome. Quando in anni più tardi si sposò venne ad abitare in città in un posto chiamato “la ceramica” per via della fabbrica di piastrelle, proprio davanti al “Circolo Carlo Signorini”, che nel nome ricordava un partigiano caduto e si fregiava dell’orgoglioso aggettivo “proletario”. La fabbrica di piastrelle era, con ogni probabilità, la più antica fra quelle presenti in quello estremo tratto della cintura industriale della città, oggi totalmente scomparsa, ed il suo nome divenne il toponimo di quella zona. All’ingresso, sul muro più alto della fabbrica, una grande scritta fatta con diversamente colorate piastrelle di mosaico,orgogliosamente ricordava ai passanti che: “Primo in Italia, questo stabilimento diede inizio alla fabbricazione di piastrelle di grees smaltate a gran fuoco….” Poi la scritta elencava altre produzioni prestigiose che non ricordo. Anche da sposata, Severina continuò assidua a frequentare regolarmente la chiesa, cosa che faceva anche in quegli anni passati, unica in quella numerosa famiglia di sicure origini cattoliche popolari. Rimase quella con la quale furono più frequenti i contatti e la ricordo gentile, modesta ma non umile, con gli occhiali e un cappellino.
Quella sera di tanti anni fa, Severina pedalava e portava un sacchetto: era una federa per cuscino nella quale erano state messe le cose che mi sarebbero servite in quel soggiorno campagnolo dalla durata incerta. In mattinata, in un incontro casuale, le figlie della balia avevano saputo della chiusura del collegio. “Ennio ha paura dei bombardamenti” era stato detto loro e vennero subito a prendermi per portarmi in campagna da tutti ritenuta più sicura della città. Così, quella sera di luglio del 1944, arrivai per la seconda volta a Terra Amata ed erano passati nove anni da quando vi arrivai la prima volta. L’abitazione della balia era la prima, a destra del cancello d’ingresso all’aia. Loro il cancello lo chiamavano “rastréel” e la parola chissà da dove veniva, non era del nostro dialetto. Venne a vedermi una vicina di casa, una donnina bassa di statura e completamente vestita di nero, disse che si ricordava di quando vi giunsi in fasce e di come mi prendesse in braccio, mi fece una carezza.
Quella notte, come tutte le notti di quei mesi, dormii e divisi il letto con Giuseppe, che chiamavamo Pino. Aveva solo qualche mese più di me, non era quello con il quale avrei dovuto condividere, in un tempo che solo altri ricordavano, il latte di sua madre. Quello, quel mio fratello di latte morì qualche settimana dopo la nascita ed io, in una certa misura, ne presi il posto e parte degli affetti a lui destinati, affetti che continuarono e ancora continuano nonostante il passare del tempo. Della balia non ho mai saputo ne il nome ne il cognome mentre di suo marito, che io chiamavo “balio”, sapevo il cognome: Camisani. I figli viventi erano sette: Gianni, Angiola, Gino, Severa, Giuseppe, Gina, Ivana. MI volevano bene e per tutti ero uno di loro.
Gino lavorava in campagna, dopo la guerra smise di condurre carri agricoli per gli autocarri e morì travolto da un camion sulla strada per Quinzano. Con lui, ricordo bene, feci il primo giro della campagna e devo a lui la scoperta che la terra non era di tutti ma solo di qualcuno. Gli chiesi di chi fosse il campo oltre il fosso. “Di Quaini” rispose. Andammo avanti e chiesi la stessa cosa per il campo di cipperi che più tardi imparai a mangiare; “di Quaini” rispose. Di Quaini era anche l’altro campo e l’altro ancora. “Ma il tuo di campo dov’è’? “Io non ho nessun campo, tutti i campi che sono qui intorno sono di Quaini.” Più avanti negli anni sentii una canzone: “pur natura tutti uguali / diè diritti sulla terra / e classi ingorde e ladre / rubarn quel ch’ è di tutti” diceva una quartina e pensai a Gino ed quelli come noi che erano rimasti senza niente e cominciai a capire come erano andate le cose fin da tempi antichi. In uno di quei primi giorni Gino mi regalò tre noci. Erano ancora verdi e racchiuse nel mallo, che bisognava rompere con una pietra per fare emergere il guscio che avrebbe contenuto il frutto ancora non completamente maturo.
Io ero di città e quelle operazioni di sgusciamento non le conoscevo. Regalai le noci ad un ragazzo e Gino si risentì; “potevi ridarle a me … io le ho raccolte e date a te” mi disse. Percepii, in quelle parole di rimprovero, il significato nascosto di quel gesto di generosa rinuncia che non seppi cogliere ed ancora mi dispiace di averlo offeso. L’ultimo ricordo che ho di Gino risale alla fine di maggio od ai primi giorni di giugno del 1948. Ne sono assolutamente certo. Ho dei riferimenti precisi: il 18 aprile si erano tenute le elezioni politiche, il Fronte Popolare e noi perdemmo, ed entro il venti di giugno si sarebbe conclusa la campagna di allevamento dei bachi da seta con la consegna dei bozzoli all’ essicatoio per la stufatura. Fra l’uno e l’altro evento andai a fare visita alla balia. Trovai la cucina interamente occupata dai castelli di legno e cannicci sui quali crescevano i bruchi per la seta. La fase della crescita era ormai avanzata e i bruchi, strisciando, scalavano la parte alta del castello per dove si sarebbero rinchiusi nel bozzolo. Il fuoco nel caminetto era acceso; i bachi avevano bisogno di caldo. Per quaranta giorni lo spazio della cucina sarebbe stato condiviso con migliaia di bruchi e a Gino espressi il mio disappunto.
Sempre bonario mi rimproverò, ma questa volta senza ragione,: “vedi che lavoro dobbiamo fare e poi voi cittadini votate per la Democrazia Cristiana!” Severina e Pino non so se e dove lavorassero e come passassero le giornate. Pino lo ritrovai anni dopo operaio alla scomparsa “Cavalli e Poli”, la prestigiosa fabbrica di aste dorate per cornici e, prima ancora, di cofani mortuari. La fabbrica era oltre il cavalcavia, fra il borgo Loreto ed il quartiere operaio di S. Bernardo dove le elezioni venivano sempre vinte dal partito Comunista e dal partito Socialista.
Pino, l’avevo sempre sentito parlare solo in dialetto, adesso parlava anche in italiano. Ed in lingua mi disse che s’interessava di politica, accompagnava e seguiva Guido Miglioli nel suo andare per incontri e riunioni. Angiola, la più grande delle femmine era sposata e abitava nel castello confinante la cascina Terra Amata. Il castello era l’antica nobiliare residenza di campagna delle famiglie dei Soresini-Vidoni che da queste parti avevano avuto terreni ed avevano un mulino che macinava ancora.
La ruota del mulino era mossa dall’acqua di una roggia che continua a portare il loro nome ed a scorrere verso Cremona, a lato della via per Bergamo, per ritornare nel Morbasco, dal quale è stata tolta più a monte in un posto chiamato Cura Affaitati. Gina ed Ivana erano più piccole di me. Misterioso era Gianni, il maggiore dei fratelli, che in quei quasi tre mesi non vidi mai. Raramente si parlava di lui e si diceva che fosse a Luino, sul lago Maggiore. Per me, che non l’ho mai visto durante quel mio soggiorno, è rimasto indissolubilmente legato alle sigarette che si andavano accumulando nel cassetto di uno dei lati stretti del tavolo della cucina, quello rivolto verso la finestra. Nessuno dei maschi di casa fumava e le spettanti razioni settimanale di tabacco, regolarmente ritirate dietro consegna dei bollini della tessera, finivano in quel cassetto. “Sono per Gianni” mi venne risposto una volta che chiesi. Per Gianni erano anche le foglie di tabacco che Pino e Gino andavano, di notte, a trafugare da una vicina piantagione. La coltivazione, essendo il tabacco genere di monopolio dello Stato, era sorvegliata da una vigilanza armata. Ma loro vi erano nati su quei campi e non vi era rialzo del terreno o tombinatura di fossi che non gli fossero familiari e nessuna vigilanza, armata o disarmata che fosse, sarebbe stata in grado di sorprenderli. Le foglie del tabacco erano verdi, spesse e grandi con una robusta nervatura in mezzo che di diramava verso i lati, dovevano essere fatte appassire. Sembra che il luogo migliore fosse la cappa del camino così, non so come, furono tirate in alto. Una notte le sigarette sparirono, non so le foglie del tabacco, ma al mattino le sigarette non c’erano più. Immaginai che Gianni fosse venuto a prenderle. Ma il lago Maggiore era lontano così mi convinsi che non era a Luino ma, per ragioni che solo adesso posso ipotizzare e che sempre rimarranno tali, nascosto da queste parti.
Il balio era un omino piccolo e curvo, forse per l’artrite e per il lavoro. Aveva baffi grigi e l’aspetto severo, parlava a bassa voce in un dialetto che non era il nostro. Faceva “el daquaròol”, categoria maestra di quei lavori di terra ed acqua oggi del tutto scomparsa. Conosceva l’andare dei fossi e la pendenza dei terreni sui quali l’acqua, per irrigare, doveva scorrere dolce senza impaludare, senza lasciare zone asciutte e senza trascinare l’humus fertile di superficie. L’acqua arrivava tutta insieme da lontano. Dove si divideva nascevano la Livrasca, la Boschetta, la Baldocca, la Trecca, la Fregalino, la Marzalenga, la Schizza-Castella, la Melia Bassa e forse qualche altra, rogge che ben protette da arbusti e piante per impedire che il sole ne evaporasse l’acqua, scorrevano e si allargavano a raggiera da quella parte alta di pianura. Dal costolone del Naviglio la pianura si divideva e le divaricanti pendenze, anche se non visivamente percepite, portavano l’acqua delle rogge di sponda destra al Morbasco e quelle di riva sinistra al cavo Robecco. Poi, le une e le altre confluivano e finivano nel Po, nello stesso luogo.
Di tutte quelle rogge la Fregalino è quella alla quale più a lungo sono stato legato. Più a valle,lontano dalla chiusa che la separava dall’altra acqua e dove già lambiva la periferia della città, prima che venisse intercettata e deviata per fare spazio alla costruzione di una strada di circonvallazione, muoveva ancora le pale del mulino di S.Zeno. Il mulino era antico, venne costruito dalle Madri del monastero di San Giovanni Nuovo al quale la Magnifica Comunità Cremonese concesse di aprire un bocchetto per l’uso invernale di parte dell’acqua del Naviglio Civico, ed era l’anno 1588. Poi, nei secoli, le dispense per l’uso dell’acqua si estesero.
Noi, attenti ai cicli del mugnaio, quasi quattrocento anni dopo andavamo a pescare in quella roggia che, come lasciava intendere il suo nome, era servita anche alla “smaiolatura” (sfibratura) del lino. L’acqua, in quell’estate del 1947 era poca nella roggia. Il mugnaio fermava la macina e chiudeva una paratia ad intervalli regolari di circa trenta minuti. Interrotto il suo scorrere, l’acqua si accumulava a monte, svuotando a valle l’asta del cavo.Ed in quei trenta minuti noi, nei piccoli anfratti della rive rimasti all’asciutto, nelle basse pozze residue e nel fango del letto, raccoglievamo i piccoli pesci che ormai non avevano vie di scampo. Poi, improvviso il mugnaio riapriva la chiusa, con forza accresciuta l’acqua scorreva di nuovo e il suo peso, riversato sulla ruota, rimetteva in movimento la macchina.Le rogge ricordavano nei nomi paesi attraversati, vecchi dismessi mestieri o antiche famiglie feudatarie delle quali quell’onciato d’acqua era usurpato patrimonio per diritto di conquista, ereditario o portato di dote.
Il Naviglio Civico, dove vi andavo con i ragazzi di Terra Amata che vi si recavano per fare il bagno, era un po’ il padre di tutte quelle rogge. Lo conobbi per intero tanti, tantissimi anni dopo ed il merito va ad un ragazzo di allora che ancora vedo. Propose a me ed ad altri di percorre, a piedi, tutto il sentiero che gli stava a fianco, ed erano cinquanta, forse sessanta chilometri.
Una mattina, al ponte dei “due occhi” imboccando la strada alzaia che lo costeggia, partimmo per una prima tappa. Passammo quel che restava del mulino delle”Passere”, le bocche ancora misteriose degli scaricatori che abbracciano il pianalto di Cremona, la fabbrica dei salami e la tangenziale che si poteva, con rischio calcolato, attraversare. Al di là , in riva destra, la benassina in legno che passava sopra alla roggia “CAVO” prima che s’immettesse nel Naviglio dalla quale altri ragazzi si tuffavano. E lì, si diceva, che l’acqua fosse buona perché proveniva dalle naturali risorgive di Paderno e di Ossolaro. Continuando il cammino lungo la strada alzaia del Naviglio Civico ritrovai lo “stramazzo” e vidi lo sbarramento di Marzalengo, l’isola con la cascina del “Mincin”, i “tredici ponti”, la “tomba morta”e la “presa” bergamasca di Calcio e nel suo andare la Elda cercava e catalogava, erbe, foglie, insetti d’acqua e di terra. Dal lavoro della Elda, completato con la descrizione minuziosa del percorso certamente opera di Enzo, ne nacque “Un sentiero per una riscoperta”, un libretto che l’Amministrazione Provinciale pubblicò e distribuì nelle scuole elementari. Erano gli anni dei “genitori democratici” e dei “decreti delegati”.
Partendo dalla città, il primo tratto di strada lungo il Naviglio fino alla “benassina” mi era famigliare. Dal “ponte dei due occhi” un boschivo ne costeggiava il lato destro , poi una fila di casette basse diseguali fino ai campi della cascina “Colombera”. Adesso la “Colombera” non c’è più ed anche quelli che erano i suoi campi sono spariti. DI quelle basse casette diseguali ne sono rimaste forse due. Altre, anche se rimaneggiate, conservano il tratto campagnolo originario:l’ampio cortile, il grande portone, il lungo muro con le finestre che fronteggiano il Naviglio.
Con lei, alla sera dopo cena, a volte arrivavamo fino a quell’incrocio d’ acque diverse. Io mi toglievo le scarpe e lei i sandali: nella“benassina”, senza fruscio, scorreva sempre un filo d’acqua, tanto quanta bastava per bagnare le caviglie e noi dovevamo, volevamo, passare dall’altra parte. IO andavo avanti tenendole una mano, lei mi seguiva nel buio con l’incerto incedere dei timorosi, tenendosi stretta alla sponda alta della canaletta di legno. Uno dopo l’altro con delicato sospetto, poggiava lenti i piedi sul muschio sdruccioloso del fondo ed un rumore di acqua smossa, lieve, ritmava il muoversi dei passi. Irresoluta, a volte si fermava per la leggera puntura di una conchiglia o se il filo di un’ erba cresciuta nell’acqua, come biscia, le avvolgeva o le solleticava la caviglia. Allora, con voce che solo lei poteva udire, le dicevo “vieni! Non aver paura!” Tendevo il braccio e con dolce violenza più forte le stringevo la mano. Al di là di quel percorso d’acqua risalivamo la sponda alta del fosso e il panno pesante era lì, custodito fra le foglie del platano. Sopra il panno distesi, fra un abbraccio e parole sussurrate tornavamo anche a riguardar le stelle , tranquilli in quel recinto discreto, avvolto e protetto dal contorno dell’acqua dei fossi.
Adesso qui, tra il Naviglio Civico e la via per Bergamo tutto è sconvolto, irriconoscibile, sovrastato e coperto dal cemento di un centro commerciale. Scomparso il bel tratto terminale della roggia “Cavo” e la corta strada d’erba calpestata che portava il suo nome. Scomparsi i cilindrici paracarri che la delimitavano e con loro il lavoro di antichi scalpellini. Le strade sono larghe d’asfalto, i toponimi non sono più quelli della terra e dell’acqua ma della Piazza d’Armi e del quartiere militare, avulsi da quel luogo dove, fra le diverse acque di superficie, dolcemente, con il diradarsi delle case e l’ampliarsi degli orti, la città diventava campagna. Scomparso è anche il ponte sulla roggia Cavo ed il bocchetto della “Lupa” attraverso il quale si alimentava la fossa “Corada” che, nel suo andare in “Baraccona”, muoveva il molino di S. Ambrogio. (1-continua)
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