Bigio Biànchìin, la fisarmonica e la mazurca di Migliavacca
Aveva qualche anno più di me ma era notevolmente più giovane della media età dei vecchi operai. Era originario di porta Po dove la sua famiglia abitava da sempre, in una di quelle case sul lato destro di via del Sale oltre il ponte sul Morbasco e l’incrocio con via Vecchia, che i vecchi della strada chiamavano “le cà dèi gàii” (le case dei debiti). Costruite con i primi mutui fondiari della Cassa di Risparmio, erano abitate generalmente da carrettieri e carradori che trasportavano, con i loro carri trainati da giganteschi cavalli, la ghiaia e la sabbia del PO ed i laterizi della fornace Frazzi ai cantieri della città. IL padre di Bigio era stato uno di questi ed in famiglia non se la passavano male. Poi,nel ’36 o nel ’37, in seguito alla conquista dell’impero, il padre di Bigio tentò l’avventura africana, lasciando i cavalli per gli autocarri, ma l’impresa non diede i frutti sperati.
Bigio andò a bottega da Borghi, al tempo prestigioso meccanico di automobili e corridore che partecipò ad alcune edizioni della grande corsa automobilistica su strada chiamata “Mille miglia”. La corsa si disputò fino alla metà degli anni cinquanta, venne soppressa per motivi di sicurezza. Borghi aveva bottega in quell’angolo della Cremona antica che ancora esiste, a fianco della scomparsa osteria della “Taverna”, in via Carnevali Piccio. Sull’altro lato della strada, all’innesto con via Bissolati (già Cannone; Spartaco), la ex caserma Pagliari che il nove settembre del 1943 con la caserma Manfredini, di qualche passo più avanti, resistette all’assalto delle SS tedesche. Dirimpetto alla bottega di Borghi l’antico convento di Santa Chiara poi accantonamento per truppe austrungariche, diventato caserma italiana dopo l’unità ed infine ricovero di persone senza casa.
Bigio non era iscritto al nostro sindacato ma alla CISL, sono ancora convinto che non fece mai uno sciopero né “unitario” né “separato” ma ugualmente gli fui amico. All’acquedotto faceva lavori di fino al laboratorio contatori del quale, in anni successivi, divenne il capo. Era di carattere mite,sempre disponibile per un aiuto, generoso. Intonato cantava bene sia da alto che da basso. Quando mi capitava di lavorare con lui bastava che accennassi un motivetto che immediatamente ne scaturiva un “duetto”. In anni più recenti gli si era riaccesa una vecchia passione della adolescenza. Così un giorno andai con lui a Stradella, dove da sempre si costruiscono fisarmoniche, e ne comprò una. Da noi, la fisarmonica era uno strumento molto popolare prima che venisse soppiantata dalla chitarra, nelle preferenze dei giovani.
Nell’immediato dopoguerra, fra disagi e difficoltà ma nella generale contentezza per la fine del conflitto e di sicura fiducia negli anni che sarebbero venuti, le fisarmoniche fecero la loro ricomparsa nelle osterie. Ed era in una di queste, che si trovava al piano terreno di una cadente casa di ringhiera d’angolo fra la via A.Morsenti e la piazzetta di santa Lucia, che qualcuno aveva organizzato un corso di insegnamento all'uso di quello strumento. Nelle sere d’estate, noi ragazzi di quel primo tratto di via Leonida Bissolati (già Cannone; Spartaco) ci appostavamo all’esterno di una finestra che dava sulla piazzetta e da lì ascoltavamo la musica. Molto in voga era la mazurca della “Migliavacca” della quale il motivo ricordo ancora ed il titolo ci faceva morire dal ridere. Ed in quella osteria anche Bigio fece il suo apprendistato musicale.
A casa sua si era accolti come uno della famiglia dalla moglie e dalla madre anziana,sul tavolo compariva la bottiglia della Malvasia del piacentino o, se di pomeriggio, un più corposo rosso del Piemonte. Al momento del congedo si alzava per accompagnarmi e questo era il momento confidenziale. I piccoli problemi del rapporto con la madre e di questa con la moglie, la scuola del figlio, l’ipotesi di ritirarsi dal lavoro.
I primi sintomi si manifestarono che era ancora in servizio. Andò in pensione. Ci offerse il rituale pranzo. Andai, con altri, in auto con lui in un posto che non saprei ritrovare, Oltre il fiume, per un labirinto di stradette che si distendevano per la pianura. Anche là, come da noi, filari di pioppi e granoturco. Poi qualche tralcio, la terra rossa ad indicare che la vigna del “Fortana”, un vitigno autoctono oggi anche lui scomparso, darà frutti buoni per la pigiatura.
Una decina di case, rustici ed una trattoria. Grandi tavoli di legno scuro, sedie impagliate e le pareti ricoperte di fotografie di personaggi con dediche al trattore.
Bigio parlò poco, interrompeva i suoi silenzi solo per accertarsi che pietanze e vini fossero di gradimento. Con la testa inclinata leggermente da una parte, sembrava seguire pensieri solo suoi. Forse la pensione non gli appariva quella meta così bella, come la si immagina quando si è giovani ed il suo raggiungimento lo si identifica come una vittoria sul lavoro e sul tempo. A quel traguardo il tempo è scaduto e quel che resta non rinnova né sostituisce la pienezza del passato.
Tornammo a Cremona per un’altra strada e riconobbi i luoghi. Passammo l’Ongina e l’Arda impoveriti dalla stagione secca e dalla diga. A porta Po ci salutammo con il proposito di rivederci e la promessa che sarei andato ancora a casa sua. Non sono più tornato in quella casa né gli ho fatto visita in uno dei frequenti ricoveri in ospedale. DI questo mio comportamento, di questa mia capacità di essere assente nei momenti che contano, conservo ancora oggi, dopo che sono passati tanti anni, una profonda amarezza. Certo non avrei impedito alla malattia di continuare a morderti. Forse però riprendendo a parlarti del comune lavoro, del non abbandonato progetto di comperare insieme una vecchia casa nella partigiana val Trebbia, degli studi e dell’avvenire di Gabriele avresti ricevuto il sollievo della illusione. Può darsi che, accennandoti il motivo di una canzone, ricordandoti il mio sbirciare antico attraverso la finestra di quella osteria e l’ invidiarti mentre ti davi da fare con il mantice e gli innumerevoli tasti di quello strumento, ti avrebbe ancora portato un attimo di felicità.
Non so dove sei sepolto. Ma quando canto in coro con amici (sai io canto ancora) vecchie popolari canzoni partigiane o di osteria, ogni volta che mi sembra di riconoscere un antico suono di fisarmonica, penso a te. Allora non mi trattengo dal dirti: “senti questa musica, queste canzoni certamente ti piacerebbero. Vieni!. Cantiamole ancora una volta insieme!”.
Piazza Cadorna (Porta Po), demolizione del Macello Pubblico. Cremona 1962 (Giuseppe Faliva)
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