Dopo la guerra, a far legna sul Po
A me piaceva girare i territori del fiume e dei canali, dove andavo per gioco ma anche per fare legna che poi bruciavamo nella stufa in quegli inverni che ricordo freddissimi, dove tutto gelava. Ma non pesava, ed anche l'andare per legna o il camminare da solo in quegli spazi brinati dove la nebbia rendeva incerto quel che avrei trovato alla svolta del sentiero, finiva per liberare la fantasia e venire a far parte di un piacevole immaginativo gioco che mi accompagnava nell'andare. Erano i tempi quelli, che si allontanavano dal 25 aprile del 1945, dove ancora si tramandavano i racconti degli eventi partigiani, erano storie di fortunosi traghettamenti di truppe tedesche in ritirata, di appostamenti per contrastarne l'ingresso in città e ogni buca, ogni avvallamento del terreno l'immaginavo come luogo di scontri e di attese in armi. Avvolte nel mistero più profondo mi apparivano le casotte che i pescatori si erano costruite lungo la via alzaia: quella dipinta di azzurro di “Livrìin”, l'altra grigia e cupa di “Sandroon” in fregio alla “manega”, la più lontana, quella del “Mento”, oltre la foce del Morbasco che non potevano non essere state che le postazioni della prima linea partigiana. Mentalmente ripassavo i nomi partigiani ed erano quelli di gente come me, della strada. A questi eventi si sovrapposero, o si accomunarono, cose contigue e di più recente accadimento, ed i luoghi erano sempre quelli rivieraschi del Po e dei sentieri.
Andavo a far legna, per boschine e rive del Po, con un attrezzo pesante e ricurvo che avevamo in casa e chiamavamo “rampèen”. Arrivavo al fiume percorrendo, a piedi l'intera via del Sale dove, in fondo, agganciato ai gradoni della riva che ancora esistono, c'era il ponte di barche che l'attraversava. Al di la del fiume, in terra piacentina arrivavo fino all'argine maestro. Lì da ceppi cedui di robinie crescevano lunghi rami. Quel legno duro da tagliare e pesante da portare aveva la particolarità di bruciare subito appena tagliato, senza necessità di essere essiccato. Di quei rami lunghi e diritti ne tagliavo quanti bastassero a formare una fascina che un ragazzo, fra gli undici ed i quattordici anni quale io ero, fosse stato in grado di portare sulle spalle. Di quella fascina adesso non saprei quantificare il peso: forse dieci o forse quindici chili. Per tenere legati insieme quei rami, ero maestro nel ricavare, da una frasca , una specie di laccio terminante da un capo con un cappio. Un capo di quella fronda con un piede lo tenevo fermo calcandolo contro la terra, mentre con le mani imprimevo all'arbusto per tutta la sua lunghezza, un moto rotatorio che, ripetuto per chissà quante volte, aveva la capacità di sfibrare il legno rendendolo flessibile senza romperlo.
La strada del ritorno a casa non era più lunga di quella che avevo percorso nella andata ma, certamente, più pesante non lasciava spazio alle fantasticherie ed il pensiero, schiacciato anche lui dal peso che portavo, era esclusivamente rivolto alla lunghezza del percorso che mi rimaneva da fare. Una speranza di aiuto, che alleviasse, se non il camminare, che questo non pesava, almeno la fatica di portare il peso, la riponevo nella disponibilità dei carrettieri che percorrevano nello stesso senso la via del Sale per portare gli inerti, cavati dal fiume, ai cantieri della città. MI appostavo all'uscita dal ponte, appoggiavo la mia fascina ad una delle piccole garitte che ancora esistevano, delle colonie padane, ed aspettavo il passaggio di qualche carro. Certo bisognava chiedere, cosa nella quale non sono mai stato tanto bravo. A volte il carro passava, io stavo zitto sperando che il carrettiere si offrisse spontaneamente di caricare la fascina sul carro. SE questo non succedeva non rimaneva che mettermi il carico sulle spalle.
Forse era andata così quella volta che, lungo il cammino, mi sentii con forza strappare da dietro la fascina dalle spalle. Spaventato pensai di essere stato rincorso e raggiunto da qualcuno che avesse diritto di proprietà su quei rami che avevo tagliato. MI girai e lo vidi: lo ricordo gigantesco per la statura, teneva le braccia alte tese sopra la testa e reggeva la fascina quasi fosse senza peso. Con un gesto che ripensandolo oggi lo definirei atletico lanciò la legna al di là delle alte sponde caricandola sul carro. Non mi disse una parola, il carro non si era fermato durante questa operazione, io mi ci misi dietro, un tantino a lato in modo da poter vedere la strada che si distendeva davanti, il carrettiere lo vedevo di spalle. Lui, il carrettiere, camminava davanti a fianco ed insieme al cavallo, lo accompagnava tenendolo per la briglia e gli parlava. Lo sentivo distintamente, da dietro il carro, emetter suoni gergali umanamente incomprensibili ma che il cavallo certamente capiva ed ai quali forse ubbidiva, mettendosi più a lato della strada all'incrociare di altri carri, riducendo od accelerando la velocità della marcia al superamento o alla discesa dall'argine maestro. Passammo la strettoia del ponte sul Morbasco. Poco oltre la balaustra di destra vi era un piccolo slargo con la fontanella e l'acqua da bere che scorreva, l'ingresso della osteria “del Ponte” ed in quello slargo il carrettiere fermò il carro. Senza salirvi scaricò la mia fascina, verticale l'appoggiò al muro della casa a fianco, non mi disse una parola, non mi rivolse uno sguardo forse imbarazzato dal dover ricevere un ringraziamento e, lasciati soli cavallo e carro sparì oltre la porta dell'osteria. Qui, all'incrocio con la via del Giordano le nostre strade certamente si dividevano.
Lui, il carrettiere, non seppe mai di quanta gratitudine gli sono riconoscente, certamente di me non avrà conservato nessun ricordo e non avrà mai supposto che quando negli anni ho ripetuto a me stesso una poesia imparata alla scuola elementare era a lui che pensavo: “[...]/L'amico delle valli è il carrettiere/spunta alla svolta co0n la sua blusa azzurra/che quando è nuova si confonde al cielo/egli s'è fatto al solleone e al gelo/vien coi mattini e torna con le sere/[...]”.
DI quel mio tempo dell'andar per legna ricordo la innumerevole quantità di botte che mi diede il custode delle colonie padane per essere andato a tagliare qualche ramo nel parco che lui aveva in custodia. Crudele, urlante di picchiò con forza davanti alle spaventate sue bambine che avranno avuto la mia età, a sua moglie che tentava con qualche parola di calmarlo. Più avanti negli anni quelle due bambine di un tempo le ritrovai diventate grandi in una sala da ballo. MI invitarono ad andare ad una “festina” che, come si usava allora, avrebbero organizzato nella loro casa, ancora abitavano alle colonie padane. Io non andai.
Più raffinata, ma in un certo senso più perversa, la punizione che mi inflisse, non so se il proprietario o il fattore delle terre dove adesso, insieme ad altre, c'è la casa in cui abito. Lungo la riva del fosso avevo tagliato qualche ramo da dei ceppi di platano. Con la fascina in spalla mi sorprese sull'arginello che costeggiava il Morbasco, dove il terrapieno s'immetteva nella via Lugo (oggi il tracciato di quel basso argine si chiama via Morbasco). Sadico, mi costrinse a portare il mio fardello fin sull'aia della sua cascina, quella che attualmente, ristrutturata e trasformata in casa di civile abitazione, posta dietro le scuole elementari “Virgilio” di via Trebbia. Persi la legna ma almeno non presi botte.
Nella foto una vecchia immagine di via del Sale, sullo sfondo a sinistra la ceramica Frazzi
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commenti
claudio
17 marzo 2023 20:50
Sempre grato al Signor Serventi per questo spaccato di vita vissuta ormai diventata "storia ".
enzo
19 marzo 2023 12:01
Come non complimentarsi con la ferrea, inalterabile memoria di Ennio, e condividere la sua commozione per quegli inverni gelidi e nebbiosi in cui al freddo delle abitazioni popolari occorreva combustibile di ogni sorta per mitigarlo? Per i più giovani, alla didascalia della splendida fotografia che pare cavata da un film neorealista aggiungo che è stata scattata dove via del Sale curva sull'allora argine maestro del grande fiume, oggi via Portinari del Po.
michele de crecchio
19 marzo 2023 21:42
Splendido il ricordo scritto, con la consueta agile prosa, da Ennio Serventi. Aggiungerei solo l'antico detto "La roba che c'è nei campi, è di Dio e dei Santi" (l'ho tradotto dal dialetto piacentino nel quale lo citava mia madre, ricordandomi anche come qualche conduttore di frutteti usasse persino il fucile caricato con grani di sale per punire i monelli, colti sul fatto, mentre, spinti dalla golosità naturale che non sempre le loro famiglie riuscivano a soddisfare, rubacchiavano qualche ciliegia, o qualche altro frutto, dagli alberi di sua competenza!